Alias

Anna May Wong, vento dell’est vento dell’ovest

Anna May Wong, vento dell’est vento dell’ovest

Volti del cinema Il festival di Pordenone ha offerto un approfondimento dedicato all'attrice statunitense di origini cinesi, tra le «cattive ragazze» di Hollywood da riscoprire

Pubblicato circa 2 ore faEdizione del 12 ottobre 2024

Al di là della consueta generosità spettacolare e musicale nei confronti degli esigenti amanti del cinema muto, il festival di Pordenone ha offerto al gruppo sempre più consistente delle cinefile-studiose femministe sezioni davvero stimolanti, ora dedicate alle «cattive ragazze» delle comiche (Feminist fragments) ora a personaggi da riscoprire, come Anna May Wong, per intenderci la conturbante bellezza asiatica a fianco di Marlene Dietrich nel ruolo di due prostitute d’alto bordo in Shanghai Express (Josef von Sternberg, 1932).

La biografia di questa attrice cino-americana– un intreccio di cinema e impegno politico-sociale e professionale in misura inconsueta per una ragazza che esordisce nel cinema muto a 17 anni, passa poi al sonoro e lavora in televisione, teatro e radio, in America, Europa e Cina– è necessaria per contestualizzare le sue interpretazioni, proposte dalle Giornate.

Anna May Wong era nata a Los Angeles in una famiglia di origini cinesi che, come da stereotipo, gestiva una lavanderia in un quartiere multietnico, e ha cominciato a recitare giovanissima nel cinema che in quegli anni stava prendendo piede in città. Da ragazzina fa la comparsa in film di ambientazione orientale ed esordisce a 17 anni come protagonista di Toll of the Sea (Fior di loto, 1922), ispirato alla Butterfly, una affascinante sperimentazione del colore, apprezzata alle Giornate dieci anni fa. Al tempo in California era vivo il pregiudizio contro i «gialli», soprattutto cinesi, che attraversavano il Pacifico e, dopo che erano stati sfruttati come schiavi per costruire le ferrovie e avevano sgobbato in tutti i mestieri durante la corsa all’oro, dal 1882 (Chinese Exclusion Act) vennero in pratica privati del diritto alla cittadinanza. Anna sperimenta sulla propria pelle queste discriminazioni che a Hollywood assumono caratteri particolari sia nel racconto, con l’utilizzo di stereotipi negativi (la «dragon lady», l’infida donna della malavita, o la «Butterfly», la vittima) che nell’attività professionale, con limiti al suo casting.

Infatti, come nel caso di altre etnie, inclusi gli italiani, il cinema americano non utilizzava attori appartenenti a razze disprezzate nei ruoli principali; dipingeva di nero o di rosso il volto di un bianco per permettergli di interpretare una persona di colore o un pellerossa, oppure truccava un’attrice «bianca» con gli occhi a mandorla. Gli stereotipi etnico-razziali sono il fondamento stesso della cultura del cinema americano fin dai tempi del muto, come dimostrano i film proposti alle Giornate. Dinty per esempio racconta di tre ragazzini, un irlandese sveglio, un bimbetto di colore e uno di Chinatown, che vendono giornali, ma si imbattono nelle losche trame di un gangster cinese, di cui Anna May Wong interpreta la moglie: appare in poche inquadrature, ma in primo piano, bella come una statuina congelata nella sua immagine, mentre la trama conferma che solo l’irlandese, tra i ragazzini, può contare sul «sogno americano».

In Driven from Home interpreta la moglie di un altro losco figuro ma salva la protagonista, una biondina insipida interpretata da una Virginia Lee Corbin che bamboleggia in modo insopportabile in un melodramma convenzionale che inserisce la partecipazione (se pure marginale) dell’attrice cino-americana come un tocco di gusto orientalista.

Dopo aver interpretato la bella quanto perfida principessa mongola ne Il ladro di Bagdad a fianco di Douglas Fairbanks, Anna diventa comunque un’icona di stile nei giornali femminili, con un’eleganza sofisticata e moderna dal caschetto di capelli nerissimi, in apparenza flapper, che sulla nuca però nasconde un più tradizionale chignon.

Ma l’attrice si stanca di questi «supporting roles» e personaggi negativi e nel 1928 decide di lasciare l’America per tentare la carriera in Europa dove, avendo imparato il tedesco e il francese, ottiene diversi ruoli da protagonista e recita in teatro: canta persino in italiano e appare come vedette in diverse città del nostro paese, come mi ha raccontato la curatrice della rassegna, Yiman Wang.

Di questo periodo poco conosciuto il festival ha proposto due intense pellicole che le rendono finalmente giustizia, le co-produzioni tedesco-britanniche, Song (Schmutziges Geld) e Großstadtschmetterling entrambe dirette da Richard Eichberg tra 1928 e 1929, che rivelano le sue doti interpretative, particolarmente adatte all’espressività del muto. Song è ambientato in una cosmopolita Istanbul in cui Song, una povera ragazza affamata, viene aggredita da due loschi individui e soccorsa da John, un altro sbandato, ma partecipa attivamente alla lotta strappando i capelli a uno degli aggressori e salvando in pratica l’uomo, che diventa l’oggetto del suo amore cieco (chiamiamola «sindrome di Butterfly»). L’uomo però, lanciatore di coltelli, è ancora innamorato della sua bionda compagna, diventata nel frattempo una star del balletto.

Gelosa ma non aggressiva, Song prega il suo piccolo Budda, tenendo i capelli ora sciolti ora con trecce sbarazzine, con un’area da ragazzina, che il programma del festival permette di confrontare sia con le star-fanciulle di stampo vittoriano, Lillian Gish e Mary Pickford, evidenziando come Anna sappia essere meno leziosa, capace di interpretazioni sensibili, potendo contare su occhi davvero espressivi, capaci di ogni sfumatura di sentimento, dalla tristezza alla disperazione, dalla gioia alla felicità, dalla paura al terrore.

Questo film tratta inoltre del fenomeno divistico con cui si confronta Anna May Wang al tempo; per esempio, quando la rivale le regala i suoi abiti eleganti la ragazza prova cappelli e pellicce, con le pose delle star del cinema, con un pizzico di autoironia, come nel famoso e magnifico inizio di What Price Hollywood, (il primo È nata una stella). Song-Anna ha successo nel mondo dello spettacolo, proponendo dei numeri esotici di ballo che evocano probabilmente il lavoro che faceva allora sui palcoscenici europei, con costumi sontuosi in stile art deco. Ma il suo amore disgraziato per il lanciatore di coltelli, che invece la ignora, la porta a una tragica morte in scena, infilzata da una lama. Così muore Butterfly.

In Großstadtschmetterling, ambientato in Francia, è una ballerina, la «principessa Butterfly» Mah, molestata dal manager del circo, Coco; quando si divincola dal suo tentativo di violenza mostra le sue gambe snelle fino agli slip e la sua figura longilinea avvolta in un costume luccicante di lustrini. A sottolineare il suo cuore tenero, una breve sequenza mostra il suo affetto verso il suo uccellino in gabbia che sporge il becco tra le sbarre per baciarla sulle labbra: un primo piano erotico più di una scena d’amore. Un inconsueto numero di pugilato tra donne apre la scena in cui il lanciatore di coltelli muore sulla scena per un trucco di Coco che invece incolpa Mah.

La ragazza scappa e si rifugia nello studio di un pittore, del quale inevitabilmente si innamora, e che la ritrae; anche in questo caso i primi piani valorizzano la sua grande espressività facciale, fatta di impercettibili movimenti. Per aiutare il pittore squattrinato Mah si attiva dipingendo dei ventagli che utilizza anche per civettare con lui. Scoperto da una bionda collezionista sofisticata in strada dove vende i suoi quadri, aiutato da Mah che balla per attrarre in clienti, il pittore entra nella buona società e abbandona la ragazza orientale, che entra in un cosmopolita mondo dello spettacolo, che richiama Berlin Babylon espressionista piuttosto che La Bohème.

Rientrata in America, nel 1935 si scontra con la delusione più grande della sua carriera quando la MGM non le affida il ruolo di protagonista in La buona terra (1936), tratto dal romanzo di Pearl S.Buck e ambientato in Cina, offrendolo invece a Luise Rainer, un’attrice di origini tedesche truccata da cinese, che tra l’altro riceve l’Oscar.

A questo punto, Anna May Wong visita la Cina, andando alla ricerca delle sue radici e realizzando anche un film su questa esperienza. Ritornata a Los Angeles interpreta alcuni B-movies in ruoli in cui cerca di imporre un’immagine positiva delle donne cino-americane, o comunque non-bianche. Durante la seconda guerra mondiale si occupa della raccolta di fondi per aiutare la terra di origine contro l’occupante giapponese. E nel 1951 ha fatto storia della tv in quanto prima attrice cinese protagonista di una serie tv, The Gallery of Madame Liu Tsong.

Apprezzata sia per la sensibilità delle interpretazioni che per la sua bellezza particolare, icona di stile internazionale, è stata comunque discriminata e oggetto di pettegolezzi su un suo possibile lesbismo, derivandone problemi di alcolismo- una amarezza, che sfoga però in attività non narcisistiche e ampliando al massimo la cultura in cui nel suo paese veniva imprigionata.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento