Anna Karakinska, storie di vita e di migrazione tra i fantasmi della fabbrica
Territori L'artista polacca racconta il progetto site-specific nato all’ex cementificio Unicem di Santarcangelo. Il passato operaio, il presente in transito, la scrittura di una collettività
Territori L'artista polacca racconta il progetto site-specific nato all’ex cementificio Unicem di Santarcangelo. Il passato operaio, il presente in transito, la scrittura di una collettività
Nella frazione San Michele, appena fuori Santarcangelo, c’è quella che tutti chiamano «e’ fabric’», la fabbrica, una tra le più antiche della provincia di Rimini. Nata a fine ‘800 come Cementeria Marchino divenne Unicem, del gruppo Fiat, per passare poi a quello Buzzi, e dopo storiche lotte sindacali essere chiusa il 31 dicembre 2009.
Oggi di questa vicenda rimane un grande scheletro che si erge come un maniero post moderno in mezzo agli alberi e alle case. È qui che Anna Karakinska ha messo in scena, con Szymon Kluz New Creation, un lavoro site specific realizzato per il festival di Santarcangelo. Tutto accade all’esterno della fabbrica, in una zona recintata; una scrivania e un braciere per il fuoco sono gli unici oggetti di scena. I personaggi raccontano in maniera sincera ed estemporanea la loro storia personale che alla fine, quando anche il pubblico è invitato a partecipare, diventa storia collettiva attraverso vite sul limite, in pericolo, vissute o da vivere.
Dell’Italia mi colpisce che è come una sorta di ‘gate’, un luogo in cui si incontrano persone appena arrivate da un altrove lontano: è su questo che ho deciso di lavorareAnna Karakinska
ENTRATI nel grande complesso – che da anni è al centro di forum e progetti di recupero – ci accolgono Olivia e Matilde, due ragazzine che si aggirano come «fantasmi» nell’ex cementificio. Subito dopo arriva la signora Mara Zanni. Classe 1948, ex maestra elementare, da anni assieme agli altri abitanti della comunità di San Michele mantiene viva la memoria della fabbrica e si batte perché il luogo torni a nuova vita. «Mio padre, mio fratello, mio marito e mio figlio hanno lavorato qui. Questa fabbrica è stata una grande risorsa per tutti noi. Quando ci sono tornata, mi è sembrato di sentire le voci di tutti gli operai che conoscevo. Stasera sono con noi. Mi pare di sentire ancora anche il lieve rumore cupo del forno dello stabilimento al quale oramai eravamo abituati. Vi racconto la storia di Leda Pesaresi, mia madre; per l’occasione indosso un suo vestito. Nell’estate del ‘44 per sfuggire ai bombardamenti che imperversavano su tutta la zona, si rifugiò nella fabbrica con mio padre e altri operai, insieme a mio fratello partorito da 20 giorni».
Il vissuto della signora Mara – e della rossa Santarcangelo dove Livio Bonanni, operaio e sindacalista del cementificio, fu eletto sindaco a soli 32 anni nel ’53 – si incrocia con quello di Adel, arrivato in Italia dopo la Rivoluzione in Egitto; e con le esperienze di Rosa, badante peruviana il cui cuore è diventato una pietra perché, da quando è emigrata nel nostro paese, si sente «rifiutata», o di Emanuel, ghanese che prima di giungere sulle nostre coste ha affrontato la violenza della Libia e un mortifero viaggio in mare. Ognuno interpreta se stesso. Manca solo Emanuel che per motivi di lavoro non può partecipare allo spettacolo. La sua storia viene letta da due spettatori volontari.
Il sole tramonta. Attorno a un fuoco acceso, sei persone diverse per provenienza, nazionalità, status, condividono sogni, desideri, «tentativi di vita» non tanto dissimili da quelli di molti operai e operaie che hanno attraversato gli spazi oggi deserti della grande fabbrica. Racconta la regista: «All’inizio ero un po’ scettica anche se provengo da una città industriale (Lodz, ndr), e questo tipo di panorama non mi è nuovo. Pensavamo che la storia e la comunità connessa a questo luogo potesse essere in qualche modo ritratta. Ho parlato con le persone. Gli anziani hanno una visione idealistica, ai giovani non importa molto di questa storia. Così ho deciso che non doveva essere l’unico soggetto da trattare. Dell’Italia mi colpisce che è come una sorta di gate, un luogo di transito in cui incontri persone appena arrivate da un altrove lontano. Ho deciso di lavorare su questo».
Come facciamo a rendere l’arte inclusiva se ci sono persone che si trovano nella situazione di non poter prendere parte a progetti artistici?Anna Karakinska
QUESTA prospettiva ha posto questioni nuove. Ad esempio: chi ha bisogno di essere «visto» in scena? Qual è la posizione dell’arte nei confronti di temi complessi come l’immigrazione? Prima dello spettacolo ci sono state una serie di interviste diventate il punto di partenza per la scrittura teatrale: «Abbiamo parlato della condizione dei migranti sentendo molte persone, ma è stato difficile trovare qualcuno che avesse tempo di venire alle prove e di stare in scena esponendosi. Poi ho scritto i testi, non tutti li hanno “accettati”: Adel, che in Egitto faceva teatro sociale rischiando il carcere e che oggi lavora a Rimini con un’organizzazione che aiuta i migranti, ha riscritto la prima parte da sé. La signora Mara improvvisa su un canovaccio, ogni volta racconta la sua storia da un punto di vista diverso. Il nostro “attore segreto” vive a Santarcangelo. Lavora 12 ore al giorno, anche la domenica. Alla fine abbiamo deciso di non esporlo ma è stato triste: avevamo costruito tutto il nostro lavoro su di lui. Non ho mai incontrato qualcuno di così speciale. Il fatto che alla fine non ci fosse mi ha fatto riflettere. Come facciamo a rendere l’arte inclusiva se ci sono persone che si trovano nella situazione di non poter prendere parte a progetti artistici?».
DURANTE lo spettacolo la signora Mara passa al pubblico un cesto di vimini con una torta fatta per noi; Anna Karakinska racconta che per tutti i giorni di allestimento ha preparato qualcosa per tutta la neonata compagnia. Nessuno dei partecipanti, a parte le due ragazzine, aveva mai fatto uno spettacolo: in questo percorso è nata una piccola comunità di persone. «È stato abbastanza complicato dirigere il progetto, ognuno viene da un background diverso, ci sono stati molti imprevisti – dice ancora Karakinska – avevamo poco tempo, non sempre tutti riuscivano a venire alle prove, ma alla fine si è innescato un processo di cambiamento. L’obiettivo del festival è continuare a usare questo luogo in futuro. Un luogo molto teatrale, in questi giorni è diventato una sorta di agorà dove ognuno si incontra e scambia la propria esperienza. Si è creata una relazione del qui e ora nello spazio tra le persone, con il pubblico. Alla fine si è connesso tutto».
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