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Anna-Eva Bergman, sezione e foglia d’oro: astrarre

Anna-Eva Bergman, sezione e foglia d’oro: astrarreAnna-Eva Bergman, N° 13 1976 «Deux nunataks», 1976

Parigi, Musée d'Art Moderne Dopo una fase illustrativa, che sdegnò, Anna-Eva Bergman, moglie di Hartung, dal 1950 scoprì nei paesaggi della sua Norvegia le geometrie perenni...

Pubblicato più di un anno faEdizione del 28 maggio 2023

L’artista norvegese Anna-Eva Bergman ha conosciuto due periodi nella propria produzione artistica: dal 1927 al 1950 è stata disegnatrice, illustratrice e caricaturista; e dal 1950 alla sua morte, nel 1987, si è affermata come pittrice d’astrazione. Questi due periodi appaiono come una irriducibile dicotomia se stiamo alle parole di Bergman stessa, che nella seconda parte della sua vita condanna la prima in termini talvolta molto aspri. Nel marzo del 1950, ad esempio, in una missiva all’allora ex- ma anche futuro marito Hans Hartung (la coppia è stata sposata dal 1928 al 1938, e poi di nuovo dal 1957), scrive: «la cosa che mi ha fatto veramente male, e di cui mi rammarico profondamente, è di aver cominciato a fare dell’illustrazione – cosa atroce – e lì si poteva davvero parlare di sterilità».

Forse non bisogna dare troppo credito alle parole di un artista riferite a un momento di rottura col proprio passato, o meglio di trasformazione interiore dell’alfabeto espressivo. Perché se è vero che molti dei disegni del primo periodo sono andati perduti durante un’esistenza ricca di traslochi (con la madre, a detta di Bergman, disposta a sbarazzarsene per evitare inutili ingombri), ella ne ha conservato con cura un gran numero in archivi personali e persino nell’ultimo studio di Antibes, sede dell’attuale Fondazione Hartung-Bergman. Ed è anche vero che nel secondo periodo, più che inseguire l’arte astratta, Bergman ha praticato una peculiare «arte di astrarre», mantenendo comunque salda la prossimità al referente mondo e alle sue forme più elementari. «Mi sono sviluppata poco a poco verso l’astrazione pur mantenendo un certo senso della realtà», ricorda l’artista negli ultimi anni della sua vita.

Nello scandagliare le spinte archetipiche di tali forme in modo sempre più essenziale, ci accorgiamo che l’artista ha interiorizzato l’esterno. Ecco perché è giusto il titolo dato all’ampia retrospettiva che le dedica oggi, fino al 16 luglio, il Musée d’Art Moderne  di Parigi: Anna-Eva Bergman Voyage vers l’intérieur, per la cura di Hélène Leroy (catalogo Éditions Paris Musées, pp. 280, ca. 370 illustrazioni, € 45,00).

Bergman si avvicina all’illustrazione e al disegno per la stampa durante gli anni della sua formazione artistica a Oslo, prima presso la Scuola Statale dell’arte e dell’artigianato, poi all’Accademia di Belle Arti; infine, alla Kunstgewerbeschule di Vienna. È in questo periodo che disegna ad esempio la pregevole serie di otto vignette intitolata Il destino di un artista, dove tratta con umorismo la figura del pittore tra intime ambizioni e luoghi comuni della sua percezione sociale.

Bergman padroneggia i vari codici grafici: il ritratto caricaturale, il genere satirico, le scene di costume, che le permettono di rappresentare la realtà beffandosene, e di forzarne e distorcerne le linee per dare accesso a verità paradossali. Ed è stato proprio questo osservare con acutezza il mondo intorno, e tradurlo a volte crudelmente attraverso linee espressive e dinamiche, a essere uno dei modi attraverso cui l’artista è passata all’astrazione nei primi anni cinquanta.

La scoperta in Norvegia della natura nel Finnmark e dei motivi rupestri a Ramsholmen; i soggiorni a Citadelløya, da cui ha tratto la serie Frammenti di un’isola in Norvegia; e le visioni di Berlino sotto le macerie del dopoguerra, le hanno poi fornito repertori di forme quasi astratte, liberandola gradualmente dal bisogno illustrativo.

Nel 1948, Bergman sostiene che la vocazione dell’arte moderna deve essere quella di riprendere e utilizzare i principi della sezione aurea, in quanto la sua costruzione permette di evitare ogni soggettivismo e assicura un piede nelle forme perenni.

l’artista nel suo atelier a Antibes, 1975, Fondation Hartung-Bergman

Come bene dice Céline Flécheux in catalogo, considerando le sue ricerche sulla struttura e sul colore nei taccuini di questo periodo, e osservando i suoi disegni, ci si rende conto che Bergman affronta la questione della proporzione non con calcoli, ma con figure, la principale delle quali è il pentagono. In mostra, nei quaderni realizzati negli anni cinquanta e sessanta, ci sono gli schizzi preparatori per i dipinti, che testimoniano la perseveranza del suo lavoro sulla proporzione.

Notiamo che Bergman procede in più fasi prima di trovare la forma finale delle sue opere. In una prima fase realizza la costruzione di un pentagono nel rapporto aureo con estensioni di linee e segmenti; poi, in un secondo momento, lascia solo un certo numero di linee di costruzione; e, infine, nell’ultima fase, traccia esclusivamente le linee che vuole rappresentare. Ciò che diviene davanti ai nostri occhi una montagna, un orizzonte, una stele, una stella, una barca o uno specchio, è quindi il prodotto dell’esecuzione di operazioni geometriche formali. Ed è questo ciò che spiega anche le inquadrature così singolari delle sue opere, dove i contorni delle forme rappresentate quasi debordano dal quadro.

Insieme alla sezione aurea, un’altra peculiarità dell’opera di Bergman è la foglia d’oro. A differenza della tradizione medievale, però, non cerca di usarla come simbolo del divino, ma come elemento concreto della composizione, senza alcuna concessione al decorativo, essendo solo un’esaltazione della trama luminosa che percorre la superficie dell’opera.

Grazie alla lamina metallica la luce diviene materiale e immateriale, solida ed evanescente. Viene usata come strumento pittorico alla stessa stregua del pennello e del colore, e occupa una superficie sempre più vasta nel corso degli anni, fino a corrispondere interamente agli imponenti blocchi rocciosi de La grande montagna (N°4-1957); ai fenomeni naturali mutevoli di Carboneras (N°6-1963); all’ammasso glaciale della Montagna trasparente (N°4-1967); agli squarci nell’orizzonte tra il giorno e la notte di Paesaggio (N°16-1968); alla dimensione cosmica di Altra terra, altra luna (N°55-1969); al cielo teso del Grande orizzonte blu (N°8-1969); all’interminabile flusso delle onde di Mistral (N°14-1975).

Lo ribadiamo: in Bergman la foglia metallica non serve a impreziosire, ma a far vibrare la luce che viene dal fondo del quadro e che conferisce una presenza monumentale alla vicenda dipinta. E in fondo non c’è da stupirsi se, interrogata su quale fosse il suo artista preferito, Bergman, senza alcuna esitazione, rispondeva: Beato Angelico.

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