Ann Veronica Janssens, cristalli, neon… i passi incerti
A Milano, Hangarbicocca Aporie dello sguardo e tentativi di luce, un «Grand Bal» sul filo della percezione: l’antologica dell’inglese Ann Veronica Janssens nei vasti ambienti delle Navate
A Milano, Hangarbicocca Aporie dello sguardo e tentativi di luce, un «Grand Bal» sul filo della percezione: l’antologica dell’inglese Ann Veronica Janssens nei vasti ambienti delle Navate
Stillando da una frizione dello sguardo, una vertigine percorre il corpo per un istante e l’enorme volta oscura del Pirelli HangarBicocca si ribalta dall’alto verso il basso. Sono solo degli specchi rotondi e sottili quanto una lama di ghiaccio e ad Ann Veronica Janssens tanto basta, per orientare la visione verso un punto di non ritorno, dove ogni riferimento si confonde. Una caduta o un’ascesa, un abisso o un guizzo. Disposti sul pavimento senza alcun supporto o cornice, la loro presenza si intuisce appena e, orientati verso l’alto, aprendosi virtualmente sull’infinito, riflettono con taglio registico precisi elementi caratterizzanti, una campata, un arco, un pilone, un traliccio, un gioco di ombreggiature, uno spiraglio dal quale trascolora un raggio di luce in certi momenti della giornata. Come affacciandosi sulla sezione di un pozzo, i visitatori protendono il busto ma i muscoli del collo si irrigidiscono quando le potenti nervature verticali di questa architettura postindustriale si rovesciano, delineando uno spazio imprevisto, dove il sopra e il sotto si confondono fatalmente. Ed è un dono e anche un acuto dolore, una danza sul vibrante filo della percezione.
Visitabile fino al 30 luglio e curata da Roberta Tenconi, la mostra Grand Bal si diffonde negli amplissimi ambienti delle Navate dell’ex stabilimento milanese della società AnsaldoBreda, acquisito da Pirelli nel 2004 e riconvertito in sede di ambiziosi progetti d’arte contemporanea, dedicati a maestri ormai storicizzati, come Mario Merz e Lucio Fontana, o ad autori di generazioni più recenti, come Giorgio Andreotta Calò, Dineo Seshee Bopape e Gian Maria Tosatti.
Nata in Inghilterra nel 1956, Ann Veronica Janssens è cresciuta a Kinshasa e della smisurata capitale del Congo sono ancora rintracciabili, nelle sue opere, tracce profonde, come certe suggestioni di luci cangianti e la fascinazione per un’architettura destrutturata, costituita da atmosfere sovrapposte, modulari, da smontare e rimettere in gioco, al di là della funzionalità immediata. Negli anni settanta studiò all’Ecole nationale superieure des arts visuels de La Cambre di Bruxelles, dove attualmente vive e lavora. In quel periodo diventò assistente dell’artista polacca Maria Wierusz-Kowalski, conosciuta come Tapta, la cui innovativa ricerca sulle declinazioni della scultura meriterebbe oggi di essere riconsiderata. Dopo le Biennali di San Paolo e Istanbul, Janssens ha rappresentato il Belgio alla 48ma Biennale di Venezia, nel 1999, e ha partecipato a due edizioni di Manifesta, nel 2011, a Murcia, in Spagna, e nel 2014, a San Pietroburgo. I suoi lavori, principalmente site specific, sono esposti nelle collezioni dei musei più prestigiosi al mondo, dal Centre Pompidou di Parigi al Nasher Sculpture Center di Dallas.
In mostra al Pirelli HangarBicocca è una significativa selezione di opere dalla metà degli anni novanta a oggi, a scandire un percorso rigoroso, teso a mettere in discussione i limiti della materia, modellata come un fluido non newtoniano, la cui consistenza può variare drasticamente a seconda dello sforzo esercitato dalla visione, atto di conoscenza tanto privilegiato quanto fallibile. Specchi e cristalli, PVC, ferro lucidato, neon e olio di paraffina ma anche malfermi blocchi di cemento su cui camminare con passi incerti, tintinnanti ciottoli di fiume, dalle sfumature blu e verdi, da attraversare, disperdere e ricomporre come un mandala.
Ibridando i linguaggi della scultura, della pittura e dell’architettura, nella pratica di Janssens tutti gli elementi vengono sottoposti a uno spostamento di senso più o meno accentuato e reagiscono attivamente al colpo d’occhio e in consonanza con l’ambiente circostante. Accesi riflessi frammentati si moltiplicano tra le crettature ramificate che si espandono su una spessa lastra di vetro di sicurezza, un telo leggero viene increspato da un soffio d’aria, una superficie è picchiettata da una patina di polvere di pigmento fluorescente. Superato il velo dell’oggettualità e della geometria – che pure è ieraticamente rispettata –, ogni cosa, animata o inanimata, può scivolare tra i livelli percettivi con gradazioni variabili di attrito, ricomparendo dinamica e palpitante di vita, sfuggente.
«Nel mio lavoro ci sono pochi oggetti: sono piuttosto dei gesti voluti, situazioni di perdita di controllo rivendicate e offerte come esperienze attive», spiega Janssens. «La mia pratica consiste in questa perdita di controllo, nel sottrarsi all’imposizione della materia, nel tentativo di sfuggire alla tirannia degli oggetti». Iper-estesa oppure condensata, dilatata o frammentata, da esperire su più piani, la realtà, anche quella più usuale, misurabile, affidabile, è un’astrazione da ricontrattare a ogni battito di ciglia, a ogni vertigine.
L’espace infini, opera del 1999, tiene in scacco, ancora una volta, il senso della vista che, tentando di esplorare una struttura concava, bianca e senza angoli, smarrisce ogni nesso spaziale. In Oscar, video del 2009, scorrono le immagini di una ripresa fissa su Oscar Niemeyer, l’inquadratura è focalizzata sul pioniere del Modernismo, seduto nel suo studio, assorto a fumare un sigaro. Le morbide volute grigie ne avvolgono il volto e sembrano scomporne i tratti, lasciando al contempo evaporare, come in una sineddoche visiva, anche la concretezza di tutte le sue iconiche architetture.
L’illusione della scomparsa diventa una condizione iperreale in MUHKA, Anvers, installazione immersiva composta da un banco compatto di nebbia artificiale che riempie nella sua interezza l’ampio locale del Cubo, ermeticamente isolato dal percorso espositivo e a ideale chiusura della mostra. Qui, le particelle di liquido in sospensione diventano una sorta di seconda pelle che avvolge il corpo e isola la vista. Ci si muove a tentoni, come colpiti da una alterazione gassosa dello sguardo eppure subendone il fascino momentaneo, intensificando gli altri sensi per intuire la propria disposizione nello spazio e per calcolare le distanze, tentando di conservare il senso dell’orientamento il più a lungo possibile, per riguadagnare l’uscita.
In questo luogo senza contorni, i pesi, le misure e tutti gli altri codici che definiscono l’esperienza del mondo non valgono più, la rigida logica che categorizza le cose in un ordine prospettico o gerarchico è sospesa ma non capovolta nell’assurdo. Dopo aver messo in evidenza tutte le aporie dello sguardo, per Janssens la cecità non può esprimere il topos dell’irrazionalità. Se lo specchio genera un’instabilità acuta e dolorosa, la nebbia avanza come una presenza liberatoria, tra le sue spire non si nascondono incubi e vertigini ma piccolissime gocce di luce.
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