Anita Baker, tormento ed estasi dell’anti diva del soul jazz
Sguardi Protagonista della scena black tra gli ottanta e i novanta, la parabola della cantante di Memphis
Sguardi Protagonista della scena black tra gli ottanta e i novanta, la parabola della cantante di Memphis
Negli ottanta è stata un fenomeno, vocale e dalla notevole capacità interpretativa, rivaleggiando – anche se con profonde differenze dal punto di vista stilistico – con Whitney Houston. Anita Baker è un prototipo di artista molto diversa ma capace, attraverso una serie di album di spessore tra gli ottanta e i novanta, di portare stilemi gospel, jazz in produzioni dedicate al grande pubblico. Così da fondere rigore, scelte musicali non scontate con il successo nelle classifiche e la conquista – per cinque anni consecutivi – di Grammy Awards. La «little lady dalla grande voce» come la chiamavano da piccola quando si esibiva in chiesa, ha saputo con intelligenza e intuito modificare nel tempo certe asprezze della sua voce – che gli venivamo inevitabilmente dal retroterra gospel – per affrontare territori musicali diversi.
L’(ANTI) DIVA AMERICANA – nata a Memphis in Tennessee il l2 dicembre 1957 – è poi cresciuta professionalmente a Detroit, quella per intenderci del vissuto profondo di Aretha Franklin, militando a partire dalla metà degli anni settanta nelle fila dei Chapter 8. Baker – come spiega Luciano Federighi nel volume Le grandi voci della musica americana (Mondadori, 1997) appartiene: «a quella corrente che il critico americano Nelson George ha battezzato ‘retronuevo’ ovvero cantanti neri che recuperano valori della tradizione nera in una chiave moderna, aggiornata nei suoni, stilizzata negli accenti». Il suo è un contralto alto, una voce potente che emerge da orchestrazioni complesse, ritmi sofisticati e arrangiamenti che prendono a piene mani dal jazz, nuance scure e modulazioni di testa che sono già ben presenti nel suo esordio solista Songstress (1983) tanto bello quanto non troppo fortunato commercialmente, ma che dà l’idea di un’artista completa a cui manca poco per fare il cosiddetto grande salto verso la popolarità di massa.
Gli esordi gospel, i live set infuocati e il grande successo con «Rapture»
IL SUCCESSO arriva con il secondo disco, una hit mondiale Rapture (1986) che rivela agli appassionati della black music – ma non solo – una voce e una personalità di elevata qualità. Rapture è una raccolta elegante ma non scontata, non cerca le facili scappatoie radio edit, ma si muove grazie a una costruzione ritmica d’eccellenza (Omar Hakim, Paul Jackson Jr., Vernone Fails, Paulinho De Costa, ovvero il meglio di quegli anni) e a una scelta di brani di prima scelta che si esaltano grazie all’interpretazione di Anita che smussa gli acuti, ammorbidisce il cantato e riporta – per la prima volta dopo decenni – al centro della scena contemporary pop un’artista che – seppur più vicina a una scuola di derivazione churchy – in realtà crea molte similitudini vicini alla cantante jazz.
Qualità che si esaltano dal vivo in un dvd – ma è possibile ritrovarlo anche nei vari canali youTube – dal titolo One Night of Rapture, realizzato in un teatro di Washington. Anita Baker rappresenta uno stile che il pubblico di metà anni ottanta non era più abituato ad ascoltare ‘sopraffatto’ dai suoni sintetizzati e dall’elettronica di molte colleghe. Anita e il suo staff optano per un sound decisamente acustico, dove l’elettronica è aggiunta solo come abbellimento e non come parte fondante della produzione e dell’arrangiamento.
Uno stile ’retronuevo’ ovvero cantanti che recuperano valori della tradizione afroamerican in una chiave moderna, aggiornata nei suoni e stilizzata negli accenti
UNA RICERCA voluta e seguita dall’artista in prima persona, anche in occasione del passaggio all’Elektra che segnerà il lancio e il successo internazionale di Rapture. A supportarla nella produzione – e negli arrangiamenti – il chitarrista dei Chapter 8 Michael J. Powell. Si conoscevano benissimo e Michael sapeva cosa serviva – a livello di repertorio e di raggiungimento degli obiettivi .
Rapture è l’album perfetto di Anita e i riscontri di critica e di pubblico non tardano ad arrivare. Sweet Love, il primo singolo – e probabilmente il suo pezzo più celebre – incontra subito i favori delle radio così da proiettarlo velocemente nelle classifiche pop di Billboard. Ma non c’è solo Sweet Love, nel disco ogni canzone e ogni tassello è ben calibrato, nulla è lasciato al caso. Caught Up in the Rapture, Same Old Love, No one in the world (ne esiste un’altra stupefacente versione di Dionne Warwick), consentono all’intero album di arrivare in prima posizione e di vendere nel mondo complessive 6 milioni di copie.
A COLPIRE il pubblico è la forte personalità della cantante, il modo in cui si impadronisce del palco e dei pezzi che esegue. La sua potenza vocale rende credibili i tormenti e i piaceri delle relazioni amorose che caratterizzano i testi delle sue ballate e degli up tempo. Passano due anni prima che arrivi il successore di Rapture, nel 1988 ecco Giving You The Best That I Got che non cambia formula, ma la perfeziona, consegnando successi come Lead Into Love, Just Because. Le coordinate artistiche di Anita si confermano anche in Compositions (1990), ma si fanno decisamente più sofisticate con aperture musicali jazzistiche. Tanto che buona parte dei brani vengono registrati dal vivo in studio, senza l’apporto di strumenti elettronici. Album più complesso che non ottiene gli stessi favori dei precedenti, ma le consente di approfondire nuovi momenti musicali.
Poi una lunga pausa prima di tornare in sala d’incisione: Rhythm Of Love (1994) sarà l’ultimo realizzato per l’Elektra e senza la collaborazione di Michael J. Powell. Ora è lei a seguire tutto – coadiuvata da Barry Eastmond e Gordon Chambers – e grazie a un pugno di pezzi molto ben assemblati conquista nuovamente le classifiche. Body and Soul, I apologize (ascoltarla in un registro più basso dà un’idea ben preccisa delle gamme emozionali della sua voce), le fa vincere un altro Grammy.
Poi così come si era accesa, la fiamma di Anita si spegne. Problemi personali (divorzio burrascoso dal marito), un album cancellato per una serie di incredibili errori tecnici, concerti sporadici o repentini annullamenti. E solo due dischi incisi, per la Blue Note: uno di inediti nel 2004 My Everything – elegante ma che nulla aggiungeva alla sua discografia – e un Christmas album l’anno successivo. Il 2023 l’ha rivista ancora dal vivo con un tour che lei stessa ha definito, «l’ultimo della sua carriera». Sempre possente nella voce, ma quell’urgenza e forza interpretativa degli anni novanta sembra perduta per sempre.
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