Visioni

«Animali selvatici», una radiografia tra i sentimenti del nostro presente

«Animali selvatici», una radiografia  tra i sentimenti del nostro presenteUna scena da Animali selvatici

Al cinema Il film di Cristian Mungiu, nel villaggio multietnico in Transilvania la narrazione del mondo di oggi: razzismo, xenofobia, rivendicazioni identitarie, caccia ai migranti

Pubblicato circa un anno faEdizione del 12 luglio 2023

RMN, in italiano Animali selvatici inizia con un trauma, un bimbo non parla più dopo avere visto qualcosa nel bosco, ma cosa? Il regista, Cristian Mungiu, è uno di quei nomi del cinema rumeno che si è affermato negli anni Duemila, divenendo dopo la Palma d’oro per 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni, nel 2007 un habitué del festival di Cannes dove anche questo suo nuovo film è stato presentato in concorso nel 2022.

Riflessione piuttosto cupa sul genere umano che sconfina nel teorema sociale – ma in piano sequenza – Animali selvatici mette al centro della sua narrazione una piccola comunità in Transilvania nel confronto inatteso quanto per tutti loro sgradito con alcuni «stranieri», che sono i lavoratori dello Sri Lanka assunti dalla nuova direttrice di un panificio industriale per mancanza di mano d’opera del posto. Anche lei, in un certo senso, comincerà a essere considerata «straniera» o quanto meno corpo estraneo come il protagonista, Mathias, emigrato a sua volta in Germania per cercare lavoro senza successo, che ha lasciato il mattatoio dove lavorava dopo essere stato insultato dal padrone che lo chiama «zingaro». I due, Mathias (Marin Grigore) e Csilla, sono stati amanti, forse hanno ancora un legame; l’uomo è il padre del bimbo che ha perduto la parola, il piccolo Rudi, cresciuto dalla mamma in senso contrario all’educazione all’aggressività che vorrebbe trasmettergli il padre – a sua volta con un rapporto complicato nei confronti del proprio padre ammalato.

SONO i giorni prima di Natale, tra legami famigliari e pulsioni collettive, il paesaggio pieno di neve di quel luogo dall’apparenza remota viene percorso da una violenza populista, complice la crisi economica di cui soffre la regione, nella quale si riaccendono vecchi conflitti e diaspore anche all’interno della comunità, che appare assai poco presa dallo spirito cristiano natalizio. Il fatto è che le persone del villaggio non vogliono lavorare al salario minimo – quanto la donna paga – al tempo stesso però non tollerano l’arrivo di operai da altri paesi che mentre la tensione cresce divengono gli obiettivi di una guerra feroce e meschina.
Ciò che Mungiu al di là della realtà specifica vuole illuminare è un sentimento diffuso del nostro presente, quel groviglio di razzismo, xenofobia, frustrazioni, crisi sociale, culturale, economica che hanno bisogno di colpevoli per non essere affrontati, e che abilmente manipolati si fanno violenza incontrollata. Del resto lo dichiara sini dal titolo, «RMN» che allude appunto alla risonanza magnetica nucleare con cui mette sotto esame quel perimetro di mondo. Il villaggio multietnico – dove convivono persone di origini rumene, magiare, rom e ebraiche) e diverse, fedi religiose (cattolicesimo, cristianesimo ortodosso, islamismo)si trasforma così nella diagnosi implacabile sul corpo del presente.

TUTTO giusto, se non che la regia di Mungiu lascia poco spazio alle vie di fughe; il suo film, come accade in altri titoli della sua filmografia scandisce l’assunto di partenza, lo martella in ogni gesto, in ogni figura fino a farsi tesi e dimostrazione di essa. Con maestria, e molti virtuosismi – come l’assemblea del villaggio in cui una inquadratura di 15 minuti raccoglie le tensioni del racconto giocando con la profondità di campo, la messa a fuoco e la sovrapposizione di voci. Resta però il sentimento di uno sguardo molto dimostrativo che nel restituire questa realtà del nostro tempo non trattiene una certa sentenziosità.

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