Morto nella notte a Roma  a 93 anni, Angelo Guglielmi. Storico direttore di Rai3, lanciò programmi che hanno fatto la storia della rete e della tv pubblica, oltre che personaggi come Corrado Augias, Michele Santoro, Serena Dandini e Fabio Fazio.

Oltre che dirigente, fu critico letterario, saggista e giornalista. Originario di Arona, in provincia di Novara, dove è nato il 2 aprile del 1929, nella sua lunga e attivissima vita se ne nascondono almeno quattro: quella del critico letterario, del direttore della terza rete televisiva, del presidente dell’Istituto Luce e infine dell’assessore alla Cultura per il Comune di Bologna, oltre che di affermato editorialista e prolifico scrittore.

Entrato in Rai nel 1955, diresse Rai3 dal 1987 al 1994, dando vita a una rete audace e innovativa e creando quella che è stata battezzata la tv della realtà. Sotto la sua direzione nacquero programmi come Samarcanda, Blob, Telefono giallo, Quelli che il calcio, La tv delle ragazze, Avanzi, Mi manda Lubrano, Chi l’ha visto?, Ultimo minuto e Un giorno in pretura e vengono lanciati personaggi come Michele Santoro, Serena Dandini, Fabio Fazio, Piero Chiambretti, Giuliano Ferrara e Daniele Luttazzi. Lo share medio della rete passò in pochi anni da meno dell’1% ad oltre il 10%.

Dal 1995 al 2001 Guglielmi fu anche presidente e amministratore delegato dell’Istituto Luce. Fu tra i fondatori del collettivo letterario neo-avanguardista Gruppo 63 con Umberto Eco e Edoardo Sanguineti, Beniamino Placido, Alberto Arbasino. Scrisse per Paese Sera e per il Corriere della Sera, nonché su numerose riviste.

Di seguito riproponiamo un’intervista rilasciata al manifesto l’11 maggio 1996, due anni dopo la sua uscita da Raitre.

 

Raitre? No, non ho un’idea precisa di cosa potrebbe diventare. So che quella che era stata la terza rete oggi non esiste più. E se mi proponessero di tornare risponderei di no: solo gli assassini tornano sui loro passi”. Angelo Guglielmi chiude così il discorso su un suo eventuale ritorno a Raitre. Nel suo ufficio di Cinecittà l’ex direttore della terza rete ora alla guida dell’Istituto Luce è in partenza per Cannes e non sembra particolarmente affascinato al totopoltrone del servizio pubblico. “La Raitre di allora – aggiunge – non è comunque riproponibile: era un’esperienza legata a un particolare periodo storico e culturale di questo paese”. Sentirlo parlare della sua ex creatura con tanto distacco fa un certo effetto, anche perché Guglielmi non si è affatto tirato fuori dal mondo della televisione. Al contrario, basta chiedergli cosa pensa del futuro della Rai ed è come dare fuoco alle polveri. Sul futuro del servizio pubblico, poi, ha un’idea ben precisa. “Farei giustizia di tutte quelle definizioni altisonanti come pluralità, imparzialità e obiettività, che per anni hanno accompagnato l’idea di servizio pubblico. Sono state parole al vento: la Rai non è mai stata nè obiettiva, nè imparziale e tanto meno pluralista. Ma non è con questi criteri che si definisce il servizio pubblico. Bisogna invece distinguere tra un’azienda che produce e una che si limita a distribuire.

Spiegati meglio

In questo momento sia Rai che Fininvest sono società di distribuzione: la loro offerta è fatta di prodotti acquistati. Basta consultare la loro programmazione di un giorno qualsiasi: tolti i prodotti acquistati non rimarrebbero che poche ore di programmazione al giorno. Io penso invece che un’azienda pubblica si definisca in quanto tale se è capace di trasformarsi in azienda di produzione. In questo senso l’unico esempio di pubblico alla Rai è stata la terza rete che produceva quasi per intero la sua programmazione. Beninteso la produzione va sorretta da una strategia che non è soltanto commerciale ma anche culturale. Questo consentirebbe di inalzare la qualità stessa del prodotto pur garantendo una molteplicità di generi televisivi.

C’è invece chi pensa a un servizio pubblico caratterizzato da scelte tematiche: l’informazione, i programmi dell’accesso, il grande sport.

E’ un’impostazione che si è rivelata inattuabile e velleitaria. Lo ripeto: lo spartiacque è costituito dalla scelta di produrre in proprio i programmi. E’ necessaria però una forte sensibilità culturale commisurata ai mutamenti in corso nella società; occorre, imsomma, una tv che sia strumento di riconnessione sociale e che sia in grado di mettere in comunicazione pezzi di comunità tra loro lontani. A Raitre avevamo escluso la vecchia produzione culturale, compresi i documentari, perché non li ritenevamo adeguati al momento culturale che il paese stava vivendo. In poche parole: non ci interessava un modello di televisione pedagogica perché è l’esatto contrario di una televisione creativa e vivace.

Nei giorni scorsi hai parlato di altri due compiti per il servizio pubblico: quello istituzionale e quello tecnologico.

C’è un’ipotesi di cui in passato si è spesso parlato e che ha trovato una forte resistenza dentro la Rai. E’ l’idea di dare vita ad un ente unico incaricato di assicurare la trasmissione dei programmi. Un ente al quale tutti coloro – soggetti pubblici o privati – che hanno un’offerta televisiva si possano rivolgere pagando un canone. Un’azienda del genere, dovendo assicurare a tutti un servizio come la messa in onda, dovrebbe essere pubblica e finanziata da tutti coloro che ne usufruiscono.

E i compiti istituzionali?

Sono le trasmissioni per l’estero, i programmi dell’accesso, le orchestre e i cori, le attività editoriali. Finora si è scelto di mettere queste attività in competizione con le altre attività del servizio pubblico, con il risultato di renderle ingombranti. Invece sono servizi importanti: governati in maniera diversa, potrebbero acquisire dei livelli di credibilità e di qualità che oggi non hanno.

Come vanno governati?

Centralizzandoli, finanziandoli con il canone e facendoli gestire dal servizio pubblico. Poi c’è l’offerta, i programmi prodotti che vanno finanziati con la pubblicità, magari prevedendo delle agevolazioni fiscali: un’azienda che invece di acquistare programmi li produce va messa in una condizione di privilegio.

E i soggetti privati?

Continuerebbero ad essere soprattutto delle società di distribuzione. Ma un servizio pubblico che produce programmi di qualità spingerebbe anche loro ad inalzare il livello, uscendo da uno stato di paludosa stagnazione. In questo senso Raitre è stata un fattore di destabilizzazione culturale.

La Rai deve rimanere con tre reti?

Quella delle reti è una questione poco rilevante. Ciò che conta sono le risorse. Dire che Rai e Mediaset devono passare da tre reti a due significa affermare che devono perdere cinque-seicento miliardi ciascuna e che bisogna mettere sul mercato mille miliardi per un terzo soggetto.

La Rai va privatizzata?

Alla Rai prevale la paura che la privatizzazione possa essere destabilizzante: per i posti di lavoro ma anche per i vantaggi acquisiti. Ma ormai non è più pensabile un sistema dentro il quale un soggetto sia in posizione dominante. Sarebbe di ostacolo al suo stesso sviluppo. E poi la televisione sta diventando solo uno dei segmenti del grande settore della telecomunicazione.

Nel suo intervento pubblicato su “Critica marxista” Carlo Freccero parla di una televisione che fornisce strutture al sistema politico, penetrando la società e riorganizzando l’ordine dei discorsi. Per te invece la sua è un’interpretazione ‘catastrofista’. Pensi davvero che la tv sia così ininfluente?

Freccero è molto affascinato dalle teorizzazioni estreme. Per lui la tv configura la fine dell’uomo kantiano e con esso la fine della società materiale e del sapere. E’ una tesi affascinante sul piano letterario ma che io vedo con un certo sospetto perché porta a della conclusioni per me inaccettabili. Non credo che la tv distrugga le scelte individuali e che configuri un pericolo autoritario. Del resto il 21 aprile ha nuovamente smentito l’idea che le elezioni si vincono grazie alla tv. Anzi, questa volta ha vinto chi, come Prodi, ha saputo sottrarsi all tv: la sua ritrosia ha funzionato.

Torniamo a Raitre. Cosa salveresti?

Salverei solo quei programmi come Blob che hanno un riferimento continuo con la realtà della comunicazione. E conserverei non nella forma ma nella sua energia e nel tipo di approccio la tv di Michele Santoro.

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