Angelique Kidjo, viaggio nella diaspora sulle orme di Celia Cruz
Musica Esce il 19 aprile il nuovo album, un omaggio a Cuba e alla regina della salsa tra sonorità africane, memoria, modernità
Musica Esce il 19 aprile il nuovo album, un omaggio a Cuba e alla regina della salsa tra sonorità africane, memoria, modernità
Nella instancabile circumnavigazione del pianeta alla caccia di radici africane, facendo il tragitto della diaspora schiavista all’incontrario, la black diva Angelique Kidjo stavolta ha deciso di focalizzarsi su Cuba e sulla sua inconfondibile interprete, Celia Cruz, la regina delle sonorità caraibiche e della salsa, suo amato punto di riferimento sin da quando, bambina nel natìo Benin, assistè a un suo concerto a Cotonou, in compagnia di Johnny Pacheco, una scarica di gioia e di energia che non avrebbe mai scordato.
REDUCE dallo straordinario omaggio ai Talking Heads reinventando Remain In Light, uno spettacolo live strabiliante, osannato dal pubblico e dalla critica, passato anche per Roma l’estate scorsa (e tuttora in cartellone in Francia e Germania in questi mesi), l’artista newyorchese d’adozione conferma il suo attuale stato di grazia in questo album Celia, dieci famosi successi della leggendaria cantante dell’Avana scomparsa nel 2003, che non è mai più tornata nella sua isola dopo la rivoluzione del 1959, un’esperienza d’esule simile a Kidjo che ha abbandonato il suo paese a causa della dittatura ed è sempre stata orgogliosa delle sue radici culturali, come la stessa Celia, scappata insieme al gruppo Sonora Matancera che l’aiuterà nella nuova carriera poi superstar latina che ha conquistato il pubblico americano nei decenni, proponendosi anche insieme a Tito Puente, il re del mambo, o con la Fania All Stars.
In questa ambiziosa operazione, l’angelo nerobiondo si è contornata di strumentisti eccezionali come Meshell Ndegeocello al basso, il pionere dell’afrobeat Tony Allen alla batteria, Dominic James alle chitarre e la band beninese Gangbe Brass Band che ha trasformato in pura festa africana La vida es un carnaval, il brano di contagiosa allegria diventato una cover internazionale mentre il polistrumentista e arrangiatore David Donatien, un martinicano molto noto per i lavori con Yael Naim, ha puntato tutto sull’adattamento del repertorio di Celia alle tonalità del continente più antico, dalla vocalità corale alle poliritmie selvagge.
«Sono riuscito a disfare i ritmi della salsa e a trovare melodie efficaci, farle sembrare diverse e portare tutti questi elementi forti insieme intorno alla sua personalità – ha detto Donatien – Angelique mi ha sempre confessato di udire le percussioni africane, quel ritmo travolgente nella voce di Celia Cruz, di riconoscere la struttura dei tamburi suonati dal popolo Yoruba e l’evocazione dei nomi di Chango o Yémanja, le divinità comuni della religione voodoo (già omaggiata dalla Kidjo in una versione di Voodoo Child di Hendrix da far venire la pelle d’oca)».
TORNANDO alle fonti originali di rumba, charanga, son, molte canzoni vengono rinforzate con un potente ritmo da sei battute e fiati circolari sia nello straordinario esercizio vocale di Quimbara («quimbara, quimbara, quma, quimbamba» ripetuto a velocità frenetica), scritto dal giovane portoricano Junior Cepeda che inviò un’audiocassetta con una dozzina di temi a Pacheco ed ebbe la sorpresa di trovarsi in cima alle classifiche di vendita nel 1974, che in Baila yemaya e Oya diosa, tutte profondamente tinte di negritudine, di invocazioni agli Orisha, alle pratiche sincretiche dei popoli caraibici.
Altrove, in Elegua e Sahara, Kidjo si lascia andare a una spiritualità diffusa, a rimodulare quel patrimonio sonoro che viaggiava avanti e indietro tra le coste atlantiche, ritornando dalle Americhe sulle navi mercantili per stabilirsi e fondersi negli scambi che avevano luogo tra i governi post coloniali dell’Africa Occidentale e i loro amici cubani. Kidjo è nata a Ouidah, epicentro del commercio degli schiavi nel XIX secolo, resa splendidamente da un romanzo di Bruce Chatwin (Il vicerè di Ouidah) dove le voci del passato si mischiano alla modernità di un paese macchiato pesantemente dalle gesta dei negrieri.
Così Angelique potrebbe sembrare l’ultima discendente delle amazzoni del Dahomey (l’antico nome del suo paese), in grado di riscattare, con la sua seducente maestrìa, le tenebrose storie di violenze e soprusi riportando uno sguardo positivo d’attivismo civile (il suo impegno nella Fondazione Batonga, per dare un’istruzione alle ragazze più svantaggiate in una delle nazioni più povere del mondo) e lanciando persino il marchio caratteristico della donna alla quale voleva somigliare, l’urlo Azucar, Azucar.
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