Angela, «La viajante» immersa nel desiderio dell’infinito
Cinema L'esordio di Miguel Mejias in Nuove Impronte, la sezione dello ShorTS festival dedicata ai lungometraggi. Girato alle Canarie, ne restituisce uno scenario autunnale, brumoso, che diviene l'essenza stessa di un film frutto di risonanze resistenti
Cinema L'esordio di Miguel Mejias in Nuove Impronte, la sezione dello ShorTS festival dedicata ai lungometraggi. Girato alle Canarie, ne restituisce uno scenario autunnale, brumoso, che diviene l'essenza stessa di un film frutto di risonanze resistenti
«Nuove impronte» definisce bene, anche metonimicamente – tracce inaudite stampate sulla terra, che sia deserto, campo di lavanda, selciato del suburbio guatemalteco – la temperie dei lungometraggi presenti quest’anno allo ShorTS International Film Festival in svolgimento in questi giorni sulla piattaforma di Mymovies vista l’impossibilità di tenersi dal vivo nel tradizionale scenario triestino. Ma anche a prescindere dal concetto di nuovo, mi pare che sia l’intensità dell’impronta, del segno cinematografico, a spiccare nella selezione curata da Beatrice Fiorentino, la quale fissa lo sguardo su alcuni film italiani significativi dell’ultimo periodo tra cui Tony Driver di Ascanio Petrini e Faith di Valentina Pedicini, a fianco ad altre cose interessanti come Tutto l’oro che c’è di Andrea Caccia ed Effetto Domino di Alessandro Rossetto, dimostrazione che sguardi singolari, spesso profondanti, dimessi, esordiscono nel caos, nel magma contraddittorio del cinema italiano, risalendo magari da zone d’ombra, appartate, problematiche.
TRA LA CLAUSTROFOBICA ariosità (proprio della ripresa brulicante d’anidridi, particelle, inspirazioni, espirazioni urbane di Sebastián Lojo) che caratterizza Los Fantasmas, e la ponderazione in intermezzo di sublimità di The Trouble With Nature di Illum Jacobi, nel trittico di film stranieri compare anche una prima visione mondiale che sarebbe stata degna di un Orizzonti o una Settimana della Critica veneziani, oppure della Semaine de la critique di Cannes, ecc.: vi traspare un aspetto sconosciuto, o quantomeno trascurato della dinamica di visione dei film, quella attraverso cui poi si giunge in sala di fronte a un’opera, cioè il lavoro, la cura di chi seleziona, di chi programma i film nei festival, che prende per mano un film in cui crede e lo accompagna fino allo schermo, fino al pubblico.
È La viajante dello spagnolo Miguel Mejias girato interamente nelle Canarie, delle quali però s’aggira l’immagine oleografica, assolata, all’insegna di spiagge e discoteche assordanti, ardenti, in favore di uno scenario autunnale, brumoso, che diviene l’essenza stessa di un film silenzioso, ramingo, frutto delle risonanze resistenti, vaganti nei piani, negli acrocori, nelle Meseta di Antonioni, Erice, Angelopoulos. Che ci fosse un legame misterioso, ancestrale tra Victor Erice e Theo Angelopoulos era parso chiaro, secondo una perspicuità tutta icastica, cinematografica oltre che a fronte di inferenze di critica, nel film dello spagnolo Alberto Morais, Un lugar en el cine uscito nel 2007, in cui appunto protagonisti erano i due registi (che si confrontavano su temi come la storia, la scrittura, ecc., auspice Pasolini), i cui sguardi sembrano fondersi ora nella Viajante a vantaggio di piani lunghi, pensosi, trasumananti, che erano stati del capolavoro del 1973, Lo spirito dell’alveare e delle molte sequenze «nebbiose» del cinema di Angelopoulos. C’è poi la madre di Angela, la protagonista, un’entomologa moribonda di cui si sente rimuginare di insetti e cortecce d’alberi attraverso dei nastri, come il padre di Ana nello Spirito dell’alveare bisbigliava dentro un magnetofono di arnie, ronzii, moti perpetui di fuchi citando Maeterlinck, qualcosa come il presentire «l’eternità nel ronzio di un insetto» che il compagno di viaggio di Angela declama nel silenzio serale, quasi staglia su un’orografia che si solleva all’orizzonte e nell’apparente infinità del piano, della pianura.
VIGE la persistenza, tutta la carica formale, contemplativa del piano (riempito da spiani, deserti, slarghi), l’essenza del piano-sequenza: fissità o movimenti di macchina essenziali, entrando in una camera da letto nebbiosa, quasi evanescente nella trama delle tende e sul muro dove la madre s’è tramutata in farfalla e ora se ne sta corposa, frusciante d’eternità come l’Acherontia Atropos di Montale, «un acre sibilo che/ agghiacciava», «gli occhi avvolti come d’una/ rossastra fotosfera». O nella sequenza stralunata, fosforica in cui Angela passa danzando lentamente da un ambiente all’altro dell’Ansia de infinitud (nome non certo casuale, ecco, piuttosto causale), il club in cui la musica dei Matatigre (è Sierpe y siembra, brano splendido ma inesistente se non nella vita del film, capolavoro irreperibile, composto solo per questa Viajante prima che il gruppo si sciogliesse), gli specchi, i neon variopinti disegnano i termini di un abbandono, di un’estasi momentanea che è ipotesi connaturata all’ansia d’infinito da cui prende le mosse il film.
Ed era apparso, in eco di Reygadas, di Luz Silenciosa, qualcosa come un’eternità, l’universo stellato già prima che Angela intraprendesse il viaggio, mentre vomitava, galleggiava su un’isola di terra ocra e tutt’intorno lentamente i sassi si tramutavano in astri mugghianti, e la terra in cielo.
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