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Andres Serrano, il razzismo è un giocattolo

Andres Serrano, il razzismo è un giocattoloAndres Serrano, «Black Dolls Sandy»

Intervista Il fotografo americano parla del suo progetto, «Infamous»

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 24 ottobre 2020

L’allegra spensieratezza di uno schiavo delle piantagioni di cotone pervade l’etichetta di una famosa marca di Gin, mentre un maschio nero e criminale (per Caswell) fa da bersaglio da tiro negli anni 70. Dalla fine dell’Ottocento a oggi, se si volesse comporre un ritratto del razzismo più profondo «made in Usa» basterebbe una collezione di oggetti reperiti nei mercatini e sul web.

È proprio questa la ricognizione che ha fatto l’artista e fotografo Andres Serrano (1950) con il suo ultimo progetto Infamous che, dopo la mostra alla Galerie Natalie Obadia (Parigi/Bruxelles), va in tour e arriva – proprio durante le elezioni – a New York presso Fotografiska (fino al 14 marzo 2021). Serrano, da sempre con gli occhi puntati sulle distorsioni del reale e sulle sue suppurazioni (morte sesso religione violenza), qui ha provato a «scavare nel passato inglorioso dell’umanità – dice – . Pur volendo credere che ciò che è successo appartenga solo al passato, la storia ci dimostra che abbiamo torto».

Con il movimento Black Lives Matter, il razzismo è tornato alla ribalta come problema-principe della società americana (e non solo). Lei ha scelto di raccontare questa temperie attraverso una collezione di «cimeli infami». Può spiegare il suo progetto?
Il razzismo non ci ha mai abbandonati in realtà, ma è vero che è prepotentemente tornato alla ribalta. Il problema è che ciò che è rilevante, per la maggior parte delle persone non diventa tale fino a che i media non decidano di puntarci i riflettori. In questo caso, i media avevano bisogno di una moltitudine di persone arrabbiate – in tutto il mondo – per capire che era giunto il tempo di indagare una criticità che esiste fin dalle origini dell’America stessa. Questo paese è stato fondato da esploratori bianchi che sono venuti qui non solo per esplorare ma anche per sfruttare le risorse. Non li ha guidati la bontà del loro cuore.

Ho creato Infamous l’anno scorso, prima dell’assassinio di George Floyd. Esiste un’enorme spartiacque tra i bianchi e tutti gli altri. Non è che mi sono svegliato d’improvviso, l’indignazione serpeggiava. Ed è quel tipo di indignazione che spinge le persone a uccidere, saccheggiare, protestare, scrivere libri, combattere guerre, cambiare leggi, fare arte o prendere posizione. Ognuno la affronta a modo suo.

Cosa ne pensa della «guerra delle statue» e della distruzione dei monumenti agli «eroi del colonialismo»?
Ritengo che quelle statue dovrebbero essere lasciate in disparte, o messe in musei e spazi dove possano essere conservate e osservate. Sono una testimonianza del passato. Il problema con la riscrittura della storia è che, di solito, viene rielaborata da persone che hanno la loro agenda. È sbagliato manomettere la storia o i fatti. Cosa vieta di dire semplicemente la verità?

Come ha selezionato gli oggetti che narrano la «dipendenza» culturale dal razzismo e dai suoi stereotipi?
Ho scelto quali oggetti fotografare guardando ciò che trovavo su eBay e nei siti di altre case d’asta. Sono rimasto sorpreso da quanto alcuni fossero ignobili e stravaganti. Ho anche recuperato utensili e oggetti domestici degli anni ’30 e ’40 che raffiguravano i nativi americani. In contrasto con il modo in cui venivano rappresentati gli afroamericani, i nativi erano romantizzati come noble savages. Il peso del puro odio razziale e del ridicolo era riservato solo ai neri.

Fra le cose più tristi che ho recuperato posso annoverare una fotografia del 1945 di un mucchio di cadaveri in un campo di sterminio tedesco e una cartolina del 1907 con un uomo nero appeso a un albero. La maggior parte degli altri oggetti che ho fotografato erano caricature. Non solo, però. C’è anche una fotografia del 1942 di due donne giapponesi che cuciono in un campo di internamento nipponico, molto diversa dalle immagini dello scorso anno dei bambini messicani e centroamericani in gabbia. Non sappiamo nemmeno cosa sia successo a quei bambini perché non fanno più notizia.

Lei aveva già dedicato una serie al Ku Klux Klan. Adesso, in «Infamous», vediamo solo il «simulacro», la maschera che diventa feticcio… Non crede che – senza il corpo – l’immagine perda forza?
Al contrario, c’è potere nella maschera e nel travestimento. Quando ho fotografato il Ku Klux Klan, i partecipanti li ho incontrati per la prima volta senza i cappucci e la tunica. Poi, al momento di scattare la fotografia e si sono ripresentati con le loro vesti e i cappucci: erano diventati qualcos’altro. Non erano più esseri umani ordinari ma simboli straordinari. È lo stesso processo di slittamento che accade con una suora, un vescovo o un prete. Non sono «in maschera», ma portano i «segni» della loro religione e questo li eleva in un modo che non sarebbe mai accaduto se avessero indossato i jeans.

Nel corso di una intervista ha affermato che qualunque sia il soggetto – un cadavere all’obitorio o un senzatetto – lei insegue sempre un ideale di bellezza. È valido anche per i cimeli razzisti?
La bellezza è negli occhi di chi guarda e io realizzo un lavoro che è bello per me. Se un soggetto è difficile da osservare, è ancora meglio allora presentarlo ammantato di una certa seduzione.
La sua ricerca è nata con oggetti «fetish» su Trump. Tornerà ad approfondire questo progetto?
Ho chiuso con Trump. Lo considero un progetto giunto a termine. Sono stato felice che fosse finito perché ho passato un anno, giorno e notte, a cercare e acquistare oltre mille oggetti che portavano il nome «Trump». È stato però il risultato di quello scavo culturale nella «Trump Land» che mi ha fatto venire voglia di frugare tra le macerie della storia. Ciò che ho scoperto mi ha condotto a Infamous.

Che tipo di America sta lasciando Trump?
L’America non è mai stata quello che, a volte, abbiamo pensato fosse. Credevamo di poter essere migliori di così e Donald Trump è arrivato e ha detto: «No, non lo siete affatto».

Come sta vivendo la pandemia?
Vivo come sempre, ma ancor di più circondato dalla solitudine. Ho viaggiato moltissimo per il mio lavoro, in particolare in Europa. Ora è rassicurante stare a casa e indossare una maschera. Mi è sempre piaciuto Halloween e la maschera non è solo una protezione medica necessaria, ma anche una forma di espressione personale. È un fatto noto che quando gli individui la indossano, si sentono liberi di trasformarsi in chi davvero vogliono essere. Stiamo entrando in un’era in cui tutto «andrà bene».

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