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Andrés e Luis Rodriguez, scintille nel buio di Caracas

Andrés e Luis Rodriguez, scintille nel buio di Caracas

Intervista I due cineasti e fratelli venezuelani con «Un destello interior» concorrono all’oscar

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 6 novembre 2021

È appena stato nominato agli Oscar come film in rappresentanza del Venezuela, in concorso al Festival di Mosca ed ha ottenuto il primo premio al festival di Kimolos Un Destello Interior, straordinario film dei fratelli Andrés e Luis Rodriguez (nella distribuzione internazionale The Inner Glow, «scintilla interiore».

Questo titolo così metaforico suggerisce l’impronta e lo stile del film che per la crudezza della sua storia ricorda suggestioni neorealiste, ma le affronta con una scrittura cinematografica raffinata ed allusiva, dove una camera a spalla, tenuta dai fratelli(gemelli) Rodriguez a turno in perfetta sintonia, sembra essere usata come un pennello per regalare immagini a partire dal movimento stesso che pare tessere un filo componendosi e scomponendosi in forme diverse. Come dicono gli stessi registi: «La narrazione del film e le scelte estetiche che abbiamo fatto sono sempre dirette all’espressione dei contenuti emotivi dei personaggi, una madre ed una figlia bambina, espressi in un contesto molto specifico, un quartiere di una città cosmopolita e quindi pletorico di alienazione. Tuttavia, il ritratto di questo spazio non è esente dalla ricreazione di una certa bellezza che diventa plastica nella testura delle pareti e nel rilievo dei volti immersi nella cupezza dei paesaggi urbani».

Il film infatti racconta la terribile storia di Silvia e della sua piccola Sara di sei anni che vivono in stato di povertà perché la madre, pur lavorando, non riesce a permettersi altro che una stamberga nella crisi spaventosa che attraversa Caracas. Silvia si ammala di cancro e non sa più come fare con la bambina, padre e sorella sono praticamente degli estranei. Decide quindi di abbandonarla, di nascosto, alla manager dell’ufficio dove lei pulisce i vetri e poi di farla finita. Proprio attraverso questo tentato suicidio che non sarà portato a termine, la scintilla interiore scatterà in lei e Silvia troverà una forza spirituale straordinaria che darà alla donna la forza di reagire e di correre a riprendersi la figlia. Questo aspetto del film, che ricorda il meraviglioso Biutiful del grande regista messicano Iñarritu, è quello che colpisce particolarmente perché parla del riscatto che può avvenire attraverso la forza straordinaria della propria anima.

Grazie ad una lunga conversazione che ho avuto con Andrés, il portavoce dei due fratelli Rodriguez, sono emersi importanti elementi anche relativi alla situazione di estremo disagio che viene descritta nel film che ci immerge letteralmente in una realtà straziante.

Ho saputo che il vostro approccio cinematografico è nato nel sociale, è così?
Io e mio fratello abbiamo una vasta esperienza nel settore sociale, in particolare collaborando con bambini in situazione di abbandono e persone senza fissa dimora. Proprio il lavoro sul campo ha lasciato un segno profondo rispetto alle storie ad ai personaggi che vogliamo ritrarre nei nostri film.

Per noi, il confine che divide il film documentario dal film di finzione è estremamente sottile fino a scomparire. La metodologia di immersione in una realtà e il suo trattamento estetico durante la messa in scena sono sempre influenzati da un contesto e da uno spazio specifici. Quindi, la storia raccontata in Un Destello Interior ha una sovrapposizione diretta con casi e personaggi reali. Un personaggio come quello di Silvia si può trovare in qualsiasi quartiere popolare della città di Caracas ed i vari problemi che deve affrontare sono lì, nelle strade e nei quartieri, nella realtà che ci circonda. Pertanto, il tema della sopravvivenza quotidiana assume un ruolo preponderante nella storia di Silvia e della sua piccola figlia Sara. Il fantasma della famiglia dislocata, il sentimento di totale abbandono, la solitudine come elemento alienante dell’anima assumono un ruolo essenziale nelle immagini di vita che si vogliono catturare. Le premesse dei neorealisti italiani riguardo l’approccio ad una realtà specifica si fondono nel nostro film con il cinema esistenzialista di Andrej Tarkovski.

Il personaggio della madre, di Silvia, è di un realismo devastante, ma siete riusciti ad evitare qualsiasi tono melodrammatico proprio perché ne avete mantenuta alta la dignità.

Indubbiamente, la realtà del personaggio di Silvia è estremamente cruda e le sue decisioni piuttosto radicali, ma in nessun caso volevamo ‘gongolarci’ nella drammaticità della sua situazione. Al contrario, abbiamo cercato di assumere un atteggiamento di assoluta sobrietà rispetto al dramma del personaggio, sobrietà che non ha niente a che vedere con la freddezza di una telecamera che non ‘partecipa’ a ciò che cattura. Per noi, poter accedere al mondo interiore del personaggio di Silvia è stato fondamentale mentre cercavamo di fare un ritratto ‘poetico’ ma non patetico di questa donna esuberante che seguiamo nel suo viaggio per le strade di Caracas. La figura della madre si confonde in un gioco di ruoli con l’immagine della figlia per fondersi in un unico movimento emotivo riconoscendo in mezzo alla disperazione più assoluta un lampo di speranza e una fusione direi…ombelicale con l’impulso alla vita che abita dentro tutti noi, nonostante le circostanze più dure. Il lavoro dell’attrice Jerico Montilla che interpreta la madre è stato fondamentale in questo tentativo di riflettere lo spazio interiore di una donna in conflitto con sentimenti ed emozioni contrastanti. Jerico è una madre single come il personaggio di Silvia e qui di nuovo la finzione si mescola con la realtà o meglio la linea di demarcazione diventa molto tenue divenendo quasi documentario.

I personaggi di madre e figlia sono di una verità assoluta e si avverte un’intesa profonda tra le due attrici
Con Jerico Montilla e Sol Vazquez che interpreta la piccola Sara, all’inizio abbiamo lavorato sulle emozioni lentamente senza forzare. La bambina, ‘guidata’ da Jerico/Silvia nel gioco della finzione attorale, ha subito avuto risposte emotive molto reali e quindi io e mio fratello, dietro alla macchina da presa, abbiamo dovuto essere molto vigili per catturare ‘correttamente’ questo flusso di sensazioni che si incarnava mano a mano nelle attrici e certamente ne coglievamo ed accentuavamo quello che ci sembrava più rilevante nelle dinamiche dell’azione. In questo senso c’è stata libertà di scelta nel girare, ma una libertà che si doveva adattare ai limiti della composizione dell’immagine e quindi la complicità tra le attrici e noi è diventata totale. Nella scena del suicidio attraverso la disperazione del personaggio di Silvia possiamo raggiungere il ‘luogo’ dove risiede l’altra faccia di quel sentimento che la tira verso il basso, intendo dire la speranza. Ogni cammino verso la luce deve attraversare un momento traumatico. Nel film il nostro personaggio diventa un simbolo di ciò che accade al nostro paese come è stato fatto notare da alcuni critici e spettatori che hanno individuato un elemento metaforico tra la malattia di cui soffre Silvia e la realtà attuale che il Venezuela sta attraversando.

La chiave della metafora è senza dubbio possibile, ma non è affatto esaustiva. La storia di Silvia potrebbe svolgersi in qualsiasi altro paese. Dal locale cerchiamo di accedere all’universale. Tutto il dispositivo di messa in scena, l’immagine e la colonna sonora hanno lo scopo di guidarci attraverso le emozioni di Silvia. La telecamera cerca di fare una radiografia dei volti e dell’umanità dei nostri personaggi. Non c’è nessuna sanzione morale per le azioni che la nostra protagonista intraprende. L’importante è seguirla nel suo viaggio, nella sua personale via crucis. Può lo spettatore mettersi nei panni di quella madre sconcertata e confusa? Possiamo intravedere dentro di lei il meccanismo di difesa quale una barriera che ha adottato per non sentire più la paura e il dolore? Come registi di questa narrazione ci abbiamo provato.

*Francesca Bartellini è regista, scrittrice e attrice

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