Cultura

Andrea Tarabbia, un romanzo in nero per raccontare l’Italia

Andrea Tarabbia, un romanzo in nero per raccontare l’ItaliaUna foto di Francois Mori (AP)

L'intervista Parla l'autore de "Il continente bianco", in libreria per Bollati Boringhieri. Una trama spiazzante che descrive il quotidiano di una banda razzista. Uscita alla vigilia del voto. Spiega lo scrittore: «Ho dato un nome al picchiatore fascista che Parise lasciava sullo sfondo ne "L’odore del sangue". Lui descriveva il fascino della borghesia per il fenomeno. Io, ciò che è venuto dopo». «Come narrare il nostro Paese meglio che attraverso la crescita dell’estrema destra e il modo in cui i loro discorsi sono passati dagli scantinati ai talk-show?»

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 1 ottobre 2022

Nel 1979, quando era già gravemente malato, la morte sarebbe sopraggiunta nel 1986 dopo gravi sofferenze, Goffredo Parise scrisse quasi di getto un romanzo, senza correzioni o varianti come ricorderà più tardi Cesare Garboli nella prefazione al libro, per poi chiuderlo in un cassetto e chiedere che non fosse mai pubblicato. Si trattava de L’odore del sangue, uscito postumo solo nel 1997 per Rizzoli, e da cui Mario Martone avrebbe tratto un film con Fanny Ardant, Michele Placido e Riccardo Scamarcio (2004), in cui uno psicoanalista cinquantenne, Filippo, racconta il tradimento della moglie Silvia con un giovane picchiatore fascista sullo sfondo della Roma di fine anni Settanta. Il libro di Parise è dominato da sentimenti contrastanti, dove il desiderio si trasforma in gelosia e sofferenza e la passione assume i connotati di una pulsione di morte e di autodistruzione mentre, seppur solo annunciato, anche il fascino della parte oscura, del male che si fa corpo emerge dal fondo. L’amore fascista di Silvia, cui lei si concede senza limiti affascinata dalla sua natura selvaggia e brutale, non ha però né un nome né un volto. Come uno specchio beffardo riflette i quesiti e i limiti della coppia borghese.
È rovesciando in qualche modo la prospettiva rispetto all’intuizione di Parise che Andrea Tarabbia riprende lo schema della storia per concentrarsi invece proprio sulla figura del giovane neofascista e sul mondo da cui proviene. Ne Il continente bianco (Bollati Boringhieri, pp. 244, euro 16) lo scrittore vincitore del Premio Campiello nel 2019 con Madrigale senza suono, non solo gli restituisce un nome e un profilo, Marcello Croce, capo di un movimento dell’estrema destra nella Capitale degli ultimi anni, ma, relegando in qualche modo sul fondo la storia della coppia di mezza età, da cui emerge soprattutto la tragica sorte di Silvia, ci guida attraverso i simboli e le parole del neofascismo di oggi, tra violenza diffusa, assalti ai campi Rom e intrecci con la destra politica a prima vista «insospettabile». Un romanzo potente e innovativo che racconta un Paese che ha appena premiato gli ultimi eredi della fiamma tricolore nata dalle ceneri del fascismo sconfitto.

Lo scrittore Andrea Tarabbia

Malgrado all’inizio del romanzo il suo alter ego narrativo, uno scrittore che si chiama per altro come lei, parli di una genesi lunga, si avverte fra le pagine una sorta di urgenza. Come è nata l’idea di questo libro?
Ho scritto molti romanzi che si occupano di luoghi o epoche diverse da questa, ma ad un certo punto mi sono detto che avevo bisogno di guardare fuori dalla finestra e di provare a raccontare il mio Paese, il suo volto odierno. E, secondo me, una delle chiavi fondamentali per descrivere l’Italia di questi anni – il progetto del libro è andato maturando lungo quasi un decennio -, risiede proprio nella crescita continua dei movimenti neofascisti e nella progressiva accettazione che la società civile, le persone comuni hanno mostrato nei confronti del linguaggio e delle idee dell’estrema destra. Che poi il libro sia uscito nel momento in cui un partito neofascista o postfascista, come lo si vuol chiamare, vince le elezioni è un caso. Anche se è forse un caso solo fino a un certo punto visto che negli ultimi anni la retorica di quest’area politica si è un po’ impadronita del nostro modo di pensare.

A differenza del libro di Parise dove l’amante fascista di Silvia non ha neppure un nome, ne «Il continente bianco» si ha l’impressione che lui e il mondo da cui proviene siano i veri protagonisti…
Tra i motivi del fascino del libro di Parise c’è anche il fatto che non racconta nulla del mondo neofascista: appunto, neanche un nome a quel personaggio. Questo perché Parise guarda al fenomeno dal punto di vista della borghesia, di come la borghesia in qualche modo accoglie e si fa più o meno consapevolmente travolgere da questa fascinazione per il neofascismo. Ciò che Parise non ha voluto fare, ho provato perciò a farlo io. Vale a dire mettere il suo romanzo allo specchio e raccontare l’altra parte. Perché secondo me oggi come oggi bisogna guardare in faccia il crescere di questo fenomeno. Quindi ho deciso non solo di dare un nome e un cognome al personaggio che Parise lascia anonimo e in qualche modo dietro le quinte per metterlo invece al centro della scena, ma di raccontare questa vicenda dal suo punto di vista, obbligando così me stesso e chi mi legge a fare i conti con il neofascismo. Per farlo ho studiato in profondità quello che costoro pensano, professano, dicono e ho cercato di restituirlo ai lettori in termini narrativi. Vale a dire su un piano attraverso il quale ci si è approcciati molto raramente al fenomeno, su cui esiste una vasta messe di studi, saggi e reportage ma pochissimi romanzi.

Grazie a questo lavoro di scavo nell’universo neofascista, nelle parole dei personaggi riecheggiano testi e discorsi redatti o pronunciati in passato. Come le tesi contro la democrazia che l’onorevole Tito Malaspina enuncia nella sede del gruppo e che rimandano a un discorso effettivamente pronunciato da Pino Rauti nel 1949. Tali materiali assumono così una dimensione narrativa?
Non volevo essere io a ricostruire il loro pensiero, il loro modo di agire, ma volevo che fossero loro stessi a farlo, e con le loro parole. Per questo sono andato a cercare tutte quelle pubblicazioni e quei testi dei loro ideologi piccoli o grandi, di ieri come di oggi, da Pino Rauti a Gianluca Casseri (killer razzista ma anche autore di alcuni testi teorici, nda) e li ho riscritti per dar loro una dignità letteraria. Volevo che raccontassero come la pensano e chi sono, ma come personaggi di un romanzo. La sola dimensione che dal mio punto di vista, e per il lavoro che faccio, può restituire davvero lo spessore tragico e a volte grottesco che hanno queste figure. Attraverso questo procedimento mi sono anche reso conto che un neofascista di oggi può probabilmente ancora riconoscersi in quanto veniva detto o scritto cinquanta o settanta anni fa. L’unica differenza è che un discorso come quello di Rauti all’epoca lo potevi ascoltare in una riunione dell’Msi in qualche scantinato mentre oggi puoi sentire concetti simili in un talk-show di grande ascolto. Ad essere davvero cambiato non è tanto ciò che dicono questi personaggi, quanto piuttosto il modo in cui la società italiana accoglie tali messaggi.

Lo scrittore che frequenta i neofascisti alla ricerca di storie, ma che in realtà ne è attratto – la personale incursione di Tarabbia nella trama di Parise, nda – si sorprende che «la vita di chi compie il male è, in fondo, nella gioia e nel dolore, non troppo dissimile dalla nostra». Questi fascisti brutali e pronti ad uccidere non sono dei marziani e forse alcuni dei meccanismi che nutrono il loro odio ci dicono qualcosa anche di noi?
Fondamentalmente credo proprio che sia così. Sono cresciuto in un ambiente, dalla scuola alla famiglia, in cui il fascismo mi è sempre stato raccontato come l’apice dell’orrore, la Shoah, i lager. Ricordo ancora i racconti che mi faceva mio nonno da bambino, da cui emergeva che quelle atrocità le avevano compiute delle figure sinistre che non avevano nulla a che fare con noi. E invece, tragicamente, quegli orrori sono stato compiuti, e quelle idee sono ancora oggi condivise da persone che come noi si alzano ogni mattina, si lavano i denti, vanno al supermercato, il nostro vicino di casa, chi si siede accanto a noi sull’autobus. Certo che compiono delle cose che sono fuori da qualsiasi logica o da qualsiasi forma di umanità, anche se i responsabili appartengono alla mia stessa specie. Quando ho realizzato tutto ciò, ho cominciato a chiedermi come fosse possibile che un altro essere umano potesse compiere tali azioni o anche solo condividerne la prospettiva: significa che anche in me forse c’è la stessa matrice che lo ha condotto a quell’orrore. Perciò mi sono messo in gioco per andare a vedere quanto mi assomiglia chi compie qualcosa che per me è semplicemente intollerabile anche solo a livello di pensiero. E credo che sia questa la vera scommessa che sta dietro a Il continente bianco come ad altri miei libri – su tutti Il giardino delle mosche e Il demone a Beslan -: visto che l’orrore si compie attraverso altri esseri umani che almeno in apparenza possono essere come me, dove si situa il confine, la vera differenza tra noi? Per capirlo credo si debba guardare fino in fondo dentro a questo orrore e a chi se ne rende protagonista.

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento