Chi è Monica, giovane donna bella, curatissima nella sua immagine di femminilità, che l’inquadratura stringe quasi a escluderla dal mondo? Sola, spesso al telefono, nella lotta con i silenzi e le risposte mancate dall’altra parte del filo racchiude in sé un segreto, una cesura profonda da cui sembra fatichi a rimettersi, che la rende talvolta rabbiosa, altre infelice, spesso spaesata rispetto al suo essere nel mondo. Ma tutto questo Andrea Pallaoro nel suo nuovo film, il cui titolo Monica è quello del nome della protagonista – la magnifica Trace Lysette – non lo dice. O meglio lo lascia alla nostra intuizione di spettatori in quel fuoricampo senza paesaggio né passato che il 4/3 delimita emozionalmente  componendo nei frammenti di più vite un nuovo paesaggio di battaglia famigliare. Al cui centro c’è lei, Monica, che torna a casa da estranea, per rivedere la madre malata terminale (Patricia Clarkson), la stessa donna che tempo prima l’ha rifiutata, condannando come quella società di un’America conservatrice vuole

Andrea Pallaoro

(e non solo) la sua rivendicazione di essere un’altra, di scegliere l’identità del desiderio contro quella della biologia.

PRESENTATO in concorso alla Mostra di Venezia, Monica conferma il talento del suo autore, e la sua ricerca poetica tra i legami famigliari che si fanno espressione delle diverse forme di potere e, soprattutto qui, di una resistenza contro di esso. Pallaoro definisce Monica «un’eroina moderna», la sua scelta di vita non interroga solo le questioni di genere ma va oltre, dichiarando il diritto di scelta contro le aspettative e le norme imposte che vogliono per ciascuno una casella già tracciata.
Quarant’anni, nato a Trento, Pallaoro vive in America dove è arrivato giovanissimo, a diciassette anni col programma dell’anno di scuola all’estero. Alla fine non è più tornato, ha scoperto il cinema, studiato a New York e poi a Los Angeles, alla CalArts dove oggi insegna. «La mia condizione è quella dell’estraneo, sono straniero in America e ormai anche qui. Però mi si addice e mi ha permesso di avere una libertà nella vita lavorativa, di pormi delle domani in più» dice. Ci parliamo al telefono da Milano dove è arrivato per la promozione del film, da ieri in sala.

«Monica» insieme ai tuoi due film precedenti, «Medeas» (2013) e «Hannah» (2017) forma una trilogia nella quale i legami famigliari sono il punto di partenza per una narrazione che ne indaga le diverse declinazioni (e conseguenze) possibili. Da cosa è determinata questa tua scelta?

La famiglia è il corpo e la testa della società, le dinamiche che viviamo all’interno del nucleo famigliare nell’infanzia e nell’adolescenza scolpiscono i comportamenti condizionando il nostro modo di essere, la nostra identità, i nostri rapporti col mondo. E la futura vita adulta. Possiamo in effetti considerare Medeas, Hannah e Monica una trilogia in cui cerco di esplorare queste dinamiche nella loro complessità e nelle loro conseguenze. Ciascuno dei film si concentra su un aspetto, nel caso di Monica – e in parte anche di Hannah – al centro c’è il sentimento dell’abbandono: cosa significa essere abbandonati e al tempo stesso che comporta, come accade a Monica, non venire riconosciuti per ciò che si è.

A proposito, possiamo dire che quella di Monica è un’odissea di oggi, lei torna a casa e appunto non viene «riconosciuta», è diventata un’altra – condizione che rimanda al suo passato, al fatto che la sua scelta, il suo bisogno di una diversa identità non sono mai stati accettati – quindi riconosciuti – dalla famiglia.

In questa sua richiesta di essere riconosciuta si afferma l’esigenza del personaggio di fare i conti col proprio passato e di venire accettata per ciò che è ora – anche se sembra che per tutti, a cominciare dalla madre, sia una estranea. C’è solo una scena, quando le due donne sono in bagno e Monica aiuta la madre a stare nella vasca, che negli occhi di quest’ultima appare un barlume di identificazione possibile…

Che passa per il corpo, è qualcosa di non mediato dai ragionamenti, arriva dalla fisicità, dal tatto.

Sì, e specie in quella scena. Sul set è accaduto qualcosa che non dimenticheremo mai, c’era un respiro che ci univa, in quel momento eravamo tutti concentrati davanti a quanto le attrici ci stavano regalando.

In che modo lavori sulla scrittura? E quanto è determinante nel film?

Nel caso di Monica sono state le scelte formali, a cominciare dal formato del 4/3 a determinare la struttura narrativa. Più che raccontare una storia mi interessa esplorare lo stato emotivo e psicologico dei miei personaggi, il cinema che mi emoziona è quello che punta a fotografare e a penetrare l’interiorità, i pensieri, i sentimenti dei suoi protagonisti. È una scelta che facciamo insieme ai miei collaboratori e che interroga anche il rapporto tra lo spettatore e il personaggio. Nel caso di Monica il formato dell’inquadratura ricorda quello del ritratto fotografico, l’ho voluto perché privilegiando il volto e il corpo aiuta a essere più vicino a lei. La forma rettangolare esprime anche una sensazione di claustrofobia vicina alla condizione di quell’interno famigliare, e invita a dare una maggiore attenzione al fuoricampo. Nelle riprese del paesaggio ho sempre usato due lenti che sfocano lo sfondo e danno invece priorità al volto. Abbiamo cercato anche nel modo di fotografare Monica di non «consumarla» mantenendo intorno a lei un alone di mistero. La seguiamo molto da vicino ma sempre senza riuscire a vederla davvero.

Hai spesso detto che la protagonista, Trace Lysette, è stata determinante.

La sceneggiatura era il passaggio più delicato di tutto il progetto, e la persona che poteva dare vita al personaggio per questo era fondamentale. La ricerca è stata lunga, abbiamo visto tantissime candidate poi è arrivata Trace, è stato un colpo di fulmine. Ho capito subito che avevo trovato la persona giusta con cui fare questo percorso, la sua storia è molto simile a quella di Monica, e la sua collaborazione è stata fondamentale per crearla. C’è un modo in cui un attore fa nascere il proprio personaggio che va al di là della sceneggiatura, e coinvolge il suo vissuto, le sue esperienze dando al ruolo che interpreta una profondità speciale.

Tra Monica e il suo nipotino è come se avvenisse una specie di passaggio, il ragazzino è «diverso» anche lui rispetto ai codici: forse il futuro sarà più aperto?

È una scommessa che per me esprime un paradigma molto emozionante. Monica è un’eroina moderna, riesce a conquistare la sua identità e a superare le ferite del passato attraverso il perdono. Forse quelle ferite non saranno mai rimarginate del tutto ma pian piano trova una nuova serenità verso se stessa e nei confronti della sua famiglia, e forse ciò che ha attraversato potrà rappresentare un’eredità per chi viene dopo, scuotendo una società che continua a determinare i rapporti famigliari.

Rispetto agli altri due film qui nonostante la sofferenza sembra prevalere uno stato d’animo meno tragico, meno cupo.

Fa parte del mio percorso personale, anche nella mia vita ho fatto i conti con delle ferite, e la modalità in cui è accaduto entra nel film.