Andrea Liberovici, parole e note
Musica Compositore, regista e cantautore italiano porta in scena con Helga Davis «Trilogy in Two», spettacolo che è una sorta di punto a capo con ripartenza.
Musica Compositore, regista e cantautore italiano porta in scena con Helga Davis «Trilogy in Two», spettacolo che è una sorta di punto a capo con ripartenza.
Nel 1996, quasi un quarto di secolo fa, Andrea Liberovici, compositore, musicista e uomo di teatro fondò con Edoardo Sanguineti il “Teatro del Suono”. Consapevole che, per chi ha pratica di parola e di note assieme (e lui veniva da una storia personale in cui parole e suono c’entravano alla pari), mettere in scena un nuovo lavoro significa “ avere qualcosa da dire, e che deve funzionare”. Come parola e come suono assieme. E a prescindere dai generi musical proposti, sfiorati, fatti intuire. Helga Davis è un corpo asciutto di afroamericana palpitante di parole e di suoni. Ha una voce che sfida le ottave senza protervia, e un presenza teatrale infinitamente plasmabile, che le permette di passare dal cantato al parlato, dai picchi gospel al sussurro senza sforzo apparente. Preda ricca per chi scrive e vuol metter in scena qualcosa di complesso e che deve avere la minuta regolazione del congegno ad orologeria: si va sul sicuro. Ha lavorato con Bob Wilson, Philip Glass, Peter Greenway. Con Liberovici il rapporto dura da diversi anni, e il nuovo spettacolo Trilogy in Two, in scena al Teatro Duse di Genova fino al 30, e il 6 novembre prossimo a Romaeuropa Festival, è una sorta di punto a capo e ripartenza.
In origine fu il Faust’s Box, adesso arriva questa complessa “opera mosaico”, per usare le parole dell’autore (che del tutto ha curato ogni aspetto: musiche, drammaturgia, video), che offre sul medesimo palco diverse articolazioni fondamentali, e una distinzione di base tra un aspetto di riflessione universale, e uno di particolare e intima “elaborazione del lutto”. Sul palcoscenico c’è il formidabile Schallfeld Ensemble diretto da Sara Caneva, bipartito tra una sezione di corde e fiati cameristica, e una di percussioni canoniche e anche inventate: una sedia, un piccolo frullatore, martelli e mazze. Nel mezzo, uno specchio che diventa schermo o mero riflesso dell’attrice, una sorta di stargate fisico e mentale che dà indicazioni e al contempo frastorna con l’assedio di visioni cangianti. Cangiante è anche la musica, che palpita di asimmetrie acrobatiche zappiane, di riferimenti alle avanguardie contemporanee, che accenna ritmi squadrati e torsioni gospel: a servizio, nella prima parte,di una riflessione condotta su sequenze di lettere iniziali che rimandano alla grande disarmonia del presente, quel passare “dal Logos al logo” che tutti ha colonizzato.
DISARMONIA ricondotta ad armonia umanistica in figure salvifiche come Florence Nightingale, la fondatrice dell’assistenza infermieristica. La seconda parte ospita Madrigale per nove stanze di una casa veneziana, una riflessione spiazzante e iperemotiva sulla casa che abitava la madre di Andrea Margot Galante Garrone, scomparsa due anni fa: prendono voce tra gli altri gli armadi, la polvere sedimentata sulle marionette cui Margot dava vita, un neonato, una goccia, un capro espiatorio. Far parlare le cose per rifar parlare le persone. È così che il teatro rintuzza il dolore dell’assenza con le carambole della memoria.
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