Nel 2017, dopo 32 anni di assenza, tornava alla Scala Andrea Chénier (1896) di Umberto Giordano con la regia di Mario Martone e la direzione di Riccardo Chailly. Quello spettacolo, ripreso in questi giorni con la direzione di Marco Armiliato, riporta sulle assi del teatro milanese il grande affresco corale nel quale il librettista Luigi Illica, marcato stretto dal giovane e ambizioso compositore, si sforzò di raccontare una storia d’amore travagliata tenendo sullo sfondo le speranze della Rivoluzione francese tradìte dal fanatismo del Terrore. Impressionante la somiglianza (benché parziale) tra il triangolo Andrea/Maddalena/Carlo e quello Cavaradossi/Tosca/Scarpia che lo stesso Illica, insieme a Giuseppe Giacosa, dipingerà nel 1900 in Tosca di Giacomo Puccini.Il cast è guidato da Sonya Yoncheva, nel ruolo che fu di Maria Callas

ARMILIATO dirige con fermezza, evitando facili effettismi e allo stesso tempo tenendo vivo il senso del dramma, inseguendo i melodismi accesi all’italiana, le raffinatezze timbriche e le irrequietezze armoniche alla tedesca della partitura, che fonde il modello di Verdi con citazioni da Wagner e Chopin.
Con il suo allestimento, grazie ai costumi storici di Ursula Patzak, alla scenografia rotante di Margherita Palli e a un lavoro meticolosissimo sulle scene di massa, Martone, citando un’invenzione iconoclasta di Duchamp, ci offre una «macchina celibe», esplorando per l’ennesima volta le forme della tradizione del racconto storico, mosso dalla sua evidente preferenza per le rivoluzioni mancate: lo ha già fatto mettendo in scena la Rivoluzione francese nella pièce teatrale La morte di Danton (2016) di Georg Buchner, il Risorgimento italiano nel suo film Noi credevamo (2010), l’iconoclastia poetica di Giacomo Leopardi nel suo film Il giovane favoloso (2014), l’iconoclastia sociale-sessuale in Capri-Revolution (2018). In Andrea Chénier predispone un racconto storico che, entro un dispositivo scenico che enfatizza la pochezza delle azioni umane quando pretendono di annunciare a tutti i costi «magnifiche sorti e progressive», consuma più energia di quanta ne produca, divenendo sterile proprio perché tradisce sia l’ideologia che proclama, sia la vita che vorrebbe normare, sia la poesia che tenta di trasfigurarle: Chénier è un giovane favoloso che, come Leopardi, non si concede a ideali facili e consolatori, ma sceglie la via dell’autonomia intellettuale.
Il cast è guidato da Sonya Yoncheva, che affronta coraggiosamente la parte di Maddalena, accettando l’inevitabile confronto con l’interpretazione mitica di Maria Callas: la voce, non dotata del volume né dell’estensione di Anna Netrebko, che ha interpretato lo stesso ruolo nel 2017, pur in parte compensati da una buona tecnica e da una evidente passione scenica, la fanno uscire dignitosamente sconfitta.

L’ARIA «La mamma morta», immortalata nell’immaginario collettivo dall’uso che Jonathan Demme ne ha fatto nella colonna sonora del film Philadelphia (1993), scivola via riscuotendo un tiepido applauso. Yusif Eyvazov mette a partito la sua generosità scenica e una voce potente sebbene a tratti metallica e un po’ troppo gridata per dare vita a uno Chénier plausibile e intenso nella sua integrità intellettuale e nella sua amorevolezza. Nel ruolo di Gérard, sorta di Scarpia ravveduto un istante prima della catastrofe (lo stupro di Maddalena), Luca Salsi, già presente nel cast del 2017, rimpiazza un «indisposto» Ambrogio Maestri e con ineccepibile forza vocale e interpretativa scolpisce il personaggio più centrato dello spettacolo, simbolo di rabbia sociale (quella dell’insorto Quarto Stato) e allo stesso tempo di pietà. Repliche fino al 27 maggio.