Anderson, pochi momenti rari per un’autobiografia
C’è un punto focale verso cui converge la narrazione frammentata e apparentemente disorganizzata (si tratta di «Note» in successione) di Storia di uno scrittore di storie, la prima delle tre autobiografie di Sherwood Anderson, pubblicata nel 1924 all’età di quarantotto anni, e a cinque dal suo primo (e forse unico) grande capolavoro (i Racconti dell’Ohio), che adesso ci viene restituita in seconda traduzione da Nicola Manuppelli (Mattioli 1885, pp. 307, euro 15,90) a sostituire quella di Fernanda Pivano per Einaudi del 1947 (Storia di me e dei miei racconti).
Quel nodo catalizzatore al suo centro è solo la «storia di un momento», il momento in cui (nel 1912), dopo aver praticato molti mestieri – imbianchino, garzone di stalla, venditore di giornali, vagabondo, operaio, assistente tipografo, soldato nella guerra Ispano-Americana (Cuba) –, e dopo essersi piegato forzatamente all’arrivo dell’Era Industriale in America e tentato di obbedire – riuscendoci infine – al ‘vangelo della ricchezza’, Anderson esce dalla porta della sua promettente fabbrica di vernici impiantata a Elyra nell’Ohio, abbandona casa e famiglia e decide di seguire la sua vera vocazione: coltiverà l’allora poco stimato mestiere di scrittore, farà il «narratore di storie».
Il momento liberatorio, maturato sulla soglia di quello che in quei decenni febbrili passava per il raggiungimento di una convenzionale facile ricchezza (sono gli stessi inizi di un Rockefeller o di un Harkness, ci ricorda Anderson), ha un sapore quasi tragico nella dimensione personale – come di un altro dei suoi precedenti insuccessi a livello economico – ma vincente nell’ideologia che sottende (arte, spirito contro meccanica, materialismo, materia): «Che cosa farò? Beh, non lo so. Me ne andrò un po’ in giro. Starò con la gente, ascolterò le loro parole, racconterò le loro storie, quello che pensano, quello che sentono. Maledizione! Potrei anche mettermi a cercare me stesso!».
È convinto che l’America di quel tempo sia un paese ricco di storie, oltre che di denaro («Da ogni angolo storie mai raccontate mi guardavano come creature vive»), storie della provincia Middle West, che nulla hanno in comune con le coeve invenzioni romanticheggianti dei dime novels, perché narrano di solitudini esistenziali estreme in un, per altro, benedetto universo rurale in estinzione, storie di gente comune, che ancora s’accompagnavano, allora, agli ultimi racconti di una frontiera post Guerra civile, nati dal tall tale orale e millantatore (alla Mark Twain), e che restano tuttora la più schietta espressione del demotico «umorismo americano», morto, appunto, sostiene Anderson, con «l’avvento delle fabbriche».
Ecco perché – come quasi a fondazione – la prima parte di Storia di uno scrittore di storie è dedicata al padre, un inconcludente uomo del Sud spostatosi a Ovest (a Camden, Ohio, dove nacque Sherwood), grande affabulatore, dotato di grande «fantasia» menzognera e, quanto al resto nella vita, destinato a mille fallimenti: «Mio padre era stato un narratore e il fatto di non saperlo lo aveva distrutto».
Sherwood, invece, che ha ascoltato con incanto quel padre picaresco non particolarmente amato (se non, appunto, per la sua «fantasia»), sa di esserlo. Di qui la rinuncia al mito del successo materiale trionfante negli ultimi due decenni dell’Ottocento, il rifiuto della «standardizzazione» e soprattutto della «macchina» (nemica della creatività delle «mani»): la temuta «Dinamo», così Henry Adams chiamò la «nuova divinità» nel 1907 (ricorda Anderson), contrapponendola alla spiritualità della cattedrale di Chartres.
La fede in questo credo visionario e controcorrente è forte: «Se le macchine devono sopravvivere, torneranno nelle mani dei lavoratori (…) Il giorno della riscoperta dell’uomo da parte dell’uomo può non essere lontano come immaginiamo. Non è forse già accaduto, nella nostra epoca, che lo slancio verso fini puramente materiali diminuisse?». È questo quello che è stato chiamato il «misticismo» di Anderson.
Uscito, come in una trance, dalla porta della sua fabbrica, Anderson se ne va a Chicago, nel regno embrionale della «macchina», infilandosi nelle viscere più basse della nascente metropoli «come un minuscolo verme nella mela della vita moderna». Al contempo, egli sa approfittare del «Rinascimento» letterario che Chicago, più di New York, andava allora vivendo con il Naturalismo di Dreiser, l’elegia di E.L. Masters, la protesta in versi liberi di Sandburg e gli sforzi innovatori della rivista «Poetry». Imparerà, intanto, a fare il pubblicitario, lo scrittore di didascalie per la vendita di prodotti di massa, ponendosi contraddittoriamente al «servizio» di quanto il «verme» detestava: «Ciò che di indicibile e corrotto era accaduto all’arte di raccontare storie in America aveva a che fare con questa faccenda del vendere e del comprare». Solo nel1919, e dopo due mediocri romanzi, arriverà il successo del «narratore di storie» con ‘stoffa’ tutta nuova e proto-modernista. Sarà maestro riconosciuto del suo irridente parodista Hemingway, di Faulkner e altri: il padre fondatore di una scrittura vera e immediata, pur con le innocenze formali dell’autodidatta.
«Sto cercando di raccontarvi la storia di un momento e, in quanto narratore, mi viene da pensare che tutta la vita non sia fatta altro che di momenti. Viviamo solo in rari momenti» (ma quanta ricchezza di storie in quei rari momenti!). Storia di uno scrittore di storie è un’autobiografia sui generis. È vero, è il racconto di pochi «rari momenti» còlti dall’infanzia (un pomeriggio trascorso in un fienile a lasciar correre la fantasia), dagli anni di apprendistato in una fabbrica di biciclette o in un caseggiato di operai a Chicago, e dalla maturità (in una stanza d’albergo a New York). Momenti che, assieme alla storia di «me stesso», trascinano con sé una storia problematica e dialettica degli Stati Uniti («E che cos’è l’America?») in un tempo – a cavallo dei due secoli – di grandi trasformazioni economico-culturali, di riformulazione della fisionomia del paese anche in ragione degli innesti migratòri. Ma ciò che per lo più Anderson mette in discussione è la fine del mito della «pastorale» americana, un mito che forse nella realtà non è mai esistito ma che nei primi decenni del Novecento, per almeno un’altra generazione (Fitzgerald, Faulkner, Hemingway), continuerà a vivere, e a dominare i risvolti intimi del racconto della nazione sotto l’eco di una struggente nostalgia.
Quanto al problema della forma autobiografica, Anderson è ben consapevole del suo modo personalissimo di gestirne gli elementi, lasciando giocare liberamente «fatti» e «fantasia», l’io del presente e l’io del passato, e poi, ancora e in esposto conflitto, «il me stesso dell’immaginazione e quello reale. È il motivo per cui – egli ammette – le autobiografie, anche quelle un po’ scherzose come questa, sono così difficili da scrivere. Si vorrebbe apparire persone più dignitose e degne di quello che in realtà si ha il coraggio di essere. (…) L’io immaginario non cessa mai di deridere l’io reale e a volte lo fa nel momento sbagliato. Inoltre, la fantasia è una grande bugiarda».
Al di là del commento serio alla storia della sua America, il «patto» che egli stabilisce consapevolmente con il lettore è dunque quello di fargli accettare, come vuole Starobinski, la sua versione di una «vertigine dello sdoppiamento» non solo fra «io» e «io» ma fra «fatti» e «fantasia», verità biografica e improvvisazione da tall tale, perché la verità a cui egli punta è piuttosto «quella che guarda all’essenza delle cose. È questo – insiste – che sto cercando».
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