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Anderson e i sogni spezzati dell’America

Anderson e i sogni spezzati dell’AmericaJoaquin Phoenix

Al cinema Da giovedì 26 febbraio arriva anche nelle sale italiane «Vizio di forma» di Paul Thomas Anderson adattamento dall’omonimo romanzo di Thomas Pynchon

Pubblicato più di 9 anni fa

È, dice la voce di una donna fuori campo, «una sera tranquilla sulla spiaggia». E i due surfisti che vediamo galleggiare, sulle onde gonfie e pigre, ricordano quelli di Un mercoledì da leoni. Ma quello che offre Paul Thomas Anderson nel magnifico attacco del suo nuovo film, è solo un squarcio di mare, una visione già compromessa, ritagliata attraverso uno stretto vicolo di case di legno bianco; non l’orizzonte romantico e illimitato di John Milius. Non siamo nemmeno a Malibu, ma parecchi chilometri più sotto, sulla costa vicino all’aeroporto di Los Angeles. Manhattan Beach, secondo la mappa; Gordita Beach in Vizio di forma di Thomas Pynchon.

Atteso con la gravitas di un evento mistico, ma penalizzato in Usa da una distribuzione limitata a seguire l’accoglienza semifredda riservatagli l’autunno scorso dal pubblico del New York Film Festival, l’adattamento dal romanzo dell’autore di L’arcobaleno della gravità e Vineland, scritto e diretto dal regista «di culto» di Boogie Nights-L’altra Hollywood, arriva finalmente in anche in Italia. Dopo l’alba del capitalismo moderno (Il petroliere), lo sgomento esistenziale del dopoguerra (The Master), Anderson sceglie un altro film di respiro epocale, anche se molto più «per ridere», più vicino ai toni da quasi-commedia di Ubriaco d’amore (di cui condivide alcune location e la love story) che a un’opera sofferta e sofferente come The Master. 

Analogamente al capolavoro miliusiano di sopra (uscito nel 1978, ma ambientato tra la metà degli anni sessanta e quella degli anni settanta), Vizio di forma è infatti un film a cavallo di due decadi, e di due Americhe – quella «innocente», piena di promesse, incarnata dai Sixties e quella della paranoia, della disillusione del sospetto, simboleggiata da una paurosa sovraimpressione tra Charles Manson e Nixon.

È una terra di mezzo popolata di surfisti, chiromanti bionde e abbronzate, black panthers, agitatori nudi, rockettari costretti a lavorare per l’Fbi, speculatori edilizi che vogliono mettere le mani sulla città (come in Chinatown), neonazisti, ex tossici con dentiere nuove di zecca, una lobby di dentisti che si chiama come una gang di spacciatori cinesi, che si chiama a sua volta come un misterioso veliero rosso e oro.
Ai due poli (antagonisti complementari tipici del canone andersoniano) un detective privato fricchettone e un poliziotto anti-hippie, pettinato come Fred Flinstone e che sogna un suo tv show alla Untouchables. Il tutto immerso in una nuvola in cui è difficile distinguere la marijuana dal patchouli.

Corale e fantasioso, come altri cast nella filmografia di Paul Thomas Anderson (e quelli prediletti dal suo maestro riconosciuto, Robert Altman), l’insieme degli attori va da Joaquin Phoenix (il detective Doc Sportello) a Josh Brolin (il poliziotto Christian Bigfoot Bjornsen), da Martin Short (Rudy Blatnoyd) a Owen Wilson (il surf sassofonista Coy Harlingen), da Benicio Del Toro a Reese Whiterspoon. Katherine Waterston è Sashta Fay Hepworth (una versione California dreamin’ della Lauren Bacall di Il grande sonno), la ex mai dimenticata di Doc, dalla cui visita, all’inizio del film, parte l’intrigo. Hanno lavorato insieme – secondo quanto raccontato nella conferenza stampa che ha seguito la prima proiezione newyorkese del film- in una sorta di caos preordinato (ancora un omaggio al metodo Altman), di improvvisazione totale basata però su lunghe conversazioni preliminari.

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Per adattare l’hard boiled lisergico del testo pynchoniano, (uscito nel 2006), Anderson ha raccontato (al New York Times) di averlo prima di tutto interamente riscritto sotto forma di sceneggiatura, e poi di aver cominciato a tagliare, a dargli forma. Mentre Il petroliere conservava solo una traccia della sue fonte letteraria (Oil, di Upton Sinclair) Vizio di forma è una versione fedelissima (la lingua soprattutto – dagli stralci di dialogo, ad interi passaggi descrittivi del libro, affidati in voice over all’arpista Joanna Newsom, nel ruolo di Sortilege) ma anche molto libera, sfoltita, del romanzo.

Anderson, che è cresciuto nella San Fernando Valley e ha già dedicato tre film alla California (Boogie Nights, Ubriaco d’amore e Magnolia) condivide l’amore per il luogo, le atmosfere e il milieu culturale descritto da Pynchon (anni fa aveva cercato invano di adattare l’altro romanzo californiano/hippie dello scrittore, Vineland). In perfetta accordanza con il mito/mistero dell’invisibilità pynchoniana, regista e romanziere si sarebbero parlati spesso, o non si sarebbero parlati assolutamente, in corso d’opera. Ma, nonostante la differenza generazionale tra i due autori, e il ritmo quasi slapstick del film (tra i punti di riferimento, ha raccontato il regista, anche le commedie demenziali di Jim Abrams e dei fratelli Zucker, come L’aereo più pazzo del mondo), Vizio di forma echeggia il senso di rimpianto per un’utopia perduta che si respira dal libro.

 

«Come chiunque abbia vissuto quel periodo, con tutte quelle idee che galleggiavano nell’aria, anche Doc si sente ’derubato’. C’è sempre una grande tristezza sottesa al lavoro di Pynchon» ha detto ancora Anderson al NYTimes. E Phoenix, con basettoni ridicoli e lo sguardo stupefatto/rassegnato, fuori dal tempo come Elliot Gould in Il lungo addio (Raymond Chandler secondo Robert Altman), cattura quella malinconia, senza sentimentalizzarla.

Nonostante, per descrivere Vizio di forma, tutti i critici americani siano ricorsi a una vasta gamma di variazioni della parola «sballato», e nonostante la marijuana (ma anche l’eroina, e poi l’agenzia investigativa di doc si chiama Lsd) abbondi, le immagini del film non hanno nulla della qualità drogata di un cult di derivazione letteraria come Paura e delirio a Las Vegas (Hunter Thompson riletto da Terry Gilliam), o anche di film in acido di quell’era, alla The Trip o Psych Out. Girato in sontuoso 35mm, con una palette di colori densissimi, saturati, che evoca i Seventies visti dal grandissimo direttore della fotografia Bruce Surtees, il film di Anderson è meticolosamente composto, a tratti bello da piangere, le scene spesso risolte in una sola inquadratura piuttosto stretta su due personaggi. L’uso della macchina molto più simile a quello posato di The Master che a quello pindarico di Magnolia o Boogie Nights. Perché, aldilà della patina d’epoca, il suo (vero) trip è tutto interiore. Uno stato dell’anima.

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