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Ancora su Salvini, Berlinguer e la vuota indignazione

Polemiche Orrore e pietà». «Che pena… chiamate il 118». «È come paragonare Cristo a Barabba». Si tratta di espressioni usate da alcuni dirigenti del Pd (Fiano, Zingaretti), e da Achille Occhetto, […]

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 17 luglio 2020

Orrore e pietà». «Che pena… chiamate il 118». «È come paragonare Cristo a Barabba». Si tratta di espressioni usate da alcuni dirigenti del Pd (Fiano, Zingaretti), e da Achille Occhetto, a commento all’affermazione di Salvini secondo il quale la Lega avrebbe raccolto i «valori» di Enrico Berlinguer.
Forse sarebbe il caso di riservare la categoria dell’«orribile» al contesto politico e culturale di cui tale affermazione è solo un indicatore. Un contesto praticato da tanta parte di coloro che, del resto, hanno risposto a Salvini declinando soltanto le scale cromatiche sulla tavolozza della «indignazione».

Indignazione per la cosa più ovvia ed evidente, cioè l’incomparabilità assoluta tra la figura politica ed intellettuale di Berlinguer e quella dei capi della Lega da Bossi a Salvini.
Nella retorica dell’«indignazione» finiscono per ritrovarsi molti di coloro che, tramite la costruzione di un Berlinguer ad una dimensione, quella dell’etica, tentano di dare coerenza e onorabilità ad una delle storie più comuni e consunte della vicenda umana e della vita politica: rivoluzionari da giovani, cinici navigatori sulla spuma dell’esistente, da vecchi. E su questo piano il nocciolo duro della retorica salviniana non viene nemmeno toccato.

La tensione etica, di cui Berlinguer è stato portatore universalmente riconosciuto, non è separabile dalla tensione politica che lo ha visto protagonista. Non è separabile dalla sua concezione dei rapporti sociali tra gli uomini mediati dall’economia, dalla sua concezione dell’irriducibilità alla sfera del mercato dei bisogni umani: istruzione, salute, ecc., e da tutti i luoghi dei suddetti rapporti dove sono in gioco i momenti essenziali del «de hominis dignitate».

Perciò Berlinguer il 26 settembre 1980 era davanti ai cancelli della Fiat, la causa degli operai era la stessa di un partito interno a quella dinamica sociale, un partito non spettatore. Perciò Berlinguer si oppose con tutte le sue forze al taglio di alcuni punti di scala mobile voluto dal governo Craxi; ne aveva perfettamente individuato la ben più generale posta in gioco: la via libera all’inversione della direzione dei processi di democrazia economica e sociale.

Ecco, il significato di tutto questo si è dimostrato, per i postcomunisti, inaccettabile, fin dai primi anni Novanta. Napolitano è stato il più chiaro a proposito: nel passaggio dal Pci al socialismo europeo ci si poteva portare dietro Berlinguer «per la sua profonda serietà, il suo rigore, la sua tensione morale» (p.202), ma si doveva abbandonare definitivamente ogni riferimento al Berlinguer dello «schema anticapitalistico» (p.172). Un’espressione un po’ rozza ma che va al centro della questione. Per dirla ancora con Napolitano, si trattava di farla finita una volta per tutte con la prospettiva «di un mutamento radicale della società» (p.171).

Uno degli attuali indignati dice che Salvini, per sostenere il suo assunto, ha fatto riferimento solo ai moltissimi elettori operai del Pci che hanno abbandonato la «sinistra», «sorvolando su tutto il resto» (M. Serra, la Repubblica, 10 luglio). Non c’è dubbio che «tutto il resto» sia importante e faccia la differenza tra le forze politiche a trazione-Salvini-Meloni, e la sinistra-per-simmetria.

Ma quello che sta alla base delle ragioni del rifugiarsi sotto l’ombrello della Lega di tanta parte del proletariato che fu comunista, è il motivo di fondo su cui una sinistra dovrebbe interrogarsi. Qui affonda la radice della distinzione fondamentale fra destra e sinistra. Incolpare la «truffa del populismo» non è altro che il cascame di un idealismo d’accatto, come il discettare sui «valori». Non è sul piano dei «valori» in astratto che si risolve il contenzioso sulla loro attribuzione. La parola «valori», infatti, ha senso solo come concetto storicamente determinato e nella sua concreta traduzione nella prassi.

L’avventuriero politico Salvini, privo di qualsiasi remora che riguardi cultura, etica, principi, è uno degli animali più adatti a muoversi in un contesto di miseria della politica dove, sul piano dei «valori», si può dire tutto e il contrario di tutto.

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