Abbiamo fatto la storia», dice il nuovo sindaco di Ancona Daniele Silvetti mentre marcia verso il municipio che per i prossimi cinque anni sarà casa sua. Difficile dargli torto: non era mai successo che la destra riuscisse a conquistare il capoluogo marchigiano e alla fine ce l’ha fatta in una partita il cui risultato non è mai stato davvero in discussione. Ida Simonella, la candidata del centrosinistra, si è fermata al 48.3% (19.800 voti), mentre il suo sfidante è arrivato a quota 21.300 (51.7%). All’inizio dello scrutinio il risultato sembrava in bilico, con Simonella che è stata in vantaggio (sia pure di pochissimo) fino alla ventesima sezione, poi l’onda della destra è salita e non si è fermata più. «Ho chiamato Silvetti per complimentarmi, ma non mi ha risposto. Starà festeggiando», mastica amaro la candidata del Pd.

La delusione è tanta, il risultato è davvero da libro di storia, ma non si può dire che la sconfitta non fosse stata prevista da più parti. Al primo turno, del resto, il fronte progressista si è presentato spaccato in quattro – il centrosinistra classico, la sinistra, il Movimento 5 Stelle e i Verdi, ognuno per i fatti suoi – e l’ultimo decennio di dominio dell’ex sindaca Valeria Mancinelli si ricorda soprattutto per le sue pulsioni fortemente centriste e per non aver mai cercato un allargamento.

La disfatta, a conti fatti, è figlia sua e della protervia con cui ha gestito il potere che aveva a disposizione. Una linea nostalgica della stagione renziana, fermissima, mai scalfita da alcun dubbio. Nemmeno quando alle primarie del centrosinistra Simonella ha vinto di appena 45 voti contro Carlo Pesaresi: di fatto l’apertura ai temi più radicali di quest’ultimo non c’è mai stata e, nonostante sia stata trovata una quadra elettorale, quel piccolo patrimonio di partecipazione e impegno non è stato mai riscosso dalla coalizione.

A poco sono serviti gli appelli arrivati dopo il primo turno: la prospettiva di una vittoria della destra spaventava tutti, ma non c’è stato alcun apparentamento e gli altri candidati hanno lasciato «libertà di voto» ai propri sostenitori, senza dare indicazioni esplicite in favore del Pd. Era inevitabile: l’accordo non è mai stato cercato da nessuno e il risultato è lì a dimostrare il fallimento di una classe dirigente che si credeva eterna e che invece non è più «istituzione» come pure riteneva di essere. E questo nonostante i consensi tra il primo e il secondo turno siano aumentati. Il problema è che la destra li ha aumentati ancora di più, incassando tutto l’incassabile dalla lista apparentata (Ripartiamo dai giovani) e probabilmente anche qualche voto del M5s.

Il popolo, insomma, ha scelto gli altri, i nuovi arrivati, quelli che, tra le altre cose, possono garantire un filo diretto sia con l’amministrazione regionale sia con il governo centrale. Sul punto Silvetti ha puntato molto e, quando la trimurti Meloni-Salvini-Tajani è andata ad Ancona per sostenerlo, il concetto del filo diretto è stato ribadito in tutte le salse.

E anche questo è purtroppo vero: da regione sempre e per sempre in mano al centrosinistra, nel giro di pochi anni le Marche sono diventate una roccaforte della destra. Per fare il cappotto manca solo un capoluogo di provincia, Pesaro, la città di Matteo Ricci, che ieri, in un Tweet, ha bollato con un semplice «male» i risultati dei ballottaggi sottolineando comunque la vittoria di Possamai a Vicenza. Cioè di uno che non ha voluto leader nazionali in campagna elettorale. E che alle primarie del Pd era nel comitato promotore di Stefano Bonaccini. Ma questa è un’altra storia. Forse.