La mostra è come «il set di un videogame da navigare», spiega l’artista visivo Armin Linke (Milano 1966, vive a Berlino). Lui, con la storica della fotografia Estelle Blaschke (ricercatrice dell’Università di Basilea e autrice del libro Banking of Images) è protagonista dell’esposizione Image Capital. La fotografia come tecnologia dell’informazione, a cura di Francesco Zanot al Mast di Bologna (visitabile fino all’8 gennaio 2023). Spazi che possono essere attraversati «come una specie di flânerie, per citare Benjamin, ma anche occasione di approfondimento e studio».
Nato dalla collaborazione tra Fondazione Mast, Museum Folkwang di Essen, Centre Pompidou di Parigi e Deutsche Börse Photography Foundation di Frankfurt/Eschborn questo progetto espositivo («una specie di paesaggio tridimensionale») stimola momenti di riflessione attraverso fotografie, video, interviste, materiale d’archivio e oggetti vari (tra cui un lettore di microfiche Agfa Gevaert Copex LD75D) in cui non c’è nulla di scontato.

«Image Capital» è una mostra che definisce collaborativa: si tratta di un nuovo step del lavoro iniziato qualche anno insieme a Estelle Blaschke…
Il progetto è ancora in evoluzione perché, oltre alla mostra, ci sarà una piattaforma digitale dove raccoglieremo altro materiale di storici ed esperti che abbiamo invitato per alcune lecture. Sì, si tratta di una rasssegna collaborativa. Nei nostri ruoli, quello di Francesco Zanot come curatore e i nostri come artisti ma anche ricercatori, ci amalgamiamo e diventiamo un tutt’uno. L’operazione consiste nel presentare varie immagini che storicamente e filologicamente giungono da momenti differenti. Insieme alle mie fotografie – che sono dei fieldwork di antropologia scientifica – abbiamo voluto allargare quest’idea collaborativa agli ex studenti dell’università di Delft, c’è poi materiale tratto da YouTube, soprattutto pubblicità in cui spesso viene offerta un’immagine di un futuro probabile, ma ci sono anche materiali d’archivio. Estelle Blaschke, tra l’altro, ha estratto dagli archivi dell’Ibm della Library of Congress materiali degli anni Cinquanta dove, anche lì, si promette un futuro che, in un certo senso, è quello di adesso.

Il titolo, in particolare, cosa intende sottolineare?
Image Capital vuole ricordare come la fotografia non sia solo uno strumento estetico ma, sin dalla sua invenzione, sia stata parte integrante del sistema produttivo industriale. Ora la fotografia è il capitale e, in verità, i metadati che le sono associati rappresentano il capitale stesso con cui le grandi multinazionali si posizionano sul mercato. Quando diamo le nostre immagini a ditte come Meta, che è in mano a Facebook, queste diventano un capitale che viene utilizzato per alimentare i database di intelligenza artificiale, perciò forniamo anche il sostegno economico su cui queste mega-aziende possono costruire i propri monopoli finanziari.

Armin Linke, Kunsthistorisches Institut in Florenz-Max-Planck-Institut, Fototeca, Firenze, 2018. Courtesy l’artista e VistamareMilano /Pescara

Parlando di memoria digitale, negli ultimi vent’anni si sono alternati strumenti come floppy disk e dvd che nel frattempo si sono rivelati obsoleti: è sempre molto ambiguo questo tipo di memoria proiettata nel futuro…
Sì, questo sforzo tecnologico è anche un po’ grottesco. Spesso pensiamo che portando qualcosa dal fisico al digitale lo possiamo conservare, ma in verità il digitale è altrettanto materiale e fragile. Nella stanza «acces» ci sono le foto che ho fatto ai server del Cern dove sono raccolti tutti gli esperimenti. È lì, tra l’altro, che è stato inventato internet (world wide web) perché i dati incamerati, essendo il Cern un’organizzazione europea, dovevano essere interpretati, letti e distribuiti ai vari istituti in Europa ed essere, quindi, trasportati. In qualche modo, anche per trasformare l’informazione digitale si ha bisogno di cavi, di una materialità.
L’idea digitale è intrinseca sin dall’inizio dell’invenzione della fotografia. Come sostiene Estelle Blaschke, quest’ultima è stata vista da subito come moltiplicazione del bene fisico. Non la riproduzione dell’oggetto ma proprio la sua sostituzione, la moltiplicazione dell’informazione contenuta nell’oggetto.

Armin Linke. Foto di Manuela De Leonardis

Dal punto di vista emotivo, come si pone rispetto alla ricerca, nella realizzazione di questi progetti a lungo termine?
Spesso sono vari progetti che confluiscono insieme, un po’ come quando si monta un film. La mostra stessa di Bologna è strutturata con sei capitoli, come se fossero atti teatrali. Le informazioni, in questo caso, arrivano un po’ dal dialogo con Estelle Blaschke – che ha lavorato molto negli archivi fotografici, è stata da Corbis per qualche mese a parlare con gli archivisti, recandosi poi a visionare quelli della Kodak.
Insieme, siamo andati a trovare Costanza Caraffa, direttrice della Fototeca presso il Kunsthistorisches Institut di Firenze: lei ci ha spiegato che già in una fotografia come quella del 1918 di una galleria fiorentina (acquisita dalla fototeca), che raffigura opere d’arte e che veniva inviata dalla galleria al proprio agente di Londra, quei numeri scritti a mano sull’immagine erano dei codici. Servivano a determinare il prezzo dell’opera: codici tra l’agente e la galleria che il collezionista finale non poteva capire.  Quella fotografia, quindi, possedeva già dei metadati. Quest’informazione è venuta fuori attraverso la nostra intervista. Si può spiegare così anche la presenza di altri codici, come quelli dell’Istituto che ha acquisito la fotografia dalla galleria ed è anche in grado, attraverso l’analisi della calligrafia dell’archivista, probabilmente del 1920, di ricostruire chi fosse. Spiega pure il numero in alto, primo tentativo di catalogazione, sulla stessa immagine che esiste adesso in tre database – uno italiano, uno europeo e uno tedesco – ognuno dei quali ha un sistema diverso di iscrizione dei metadati. Tutte quelle stratificazioni di informazioni scritte servono per identificarla. Noi, poi, pensiamo che la fotografia sia qualcosa di visivo, ma quando facciamo una ricerca su Google image partiamo sempre da una parte scritta e poi passiamo all’immagine. La descrizione della fotografia è molto importante ed è anche una questione politica, perché chi scrive la didascalia e imposta i metadati decide come quell’immagine sarà trovata o non trovata. Quindi sono questioni rilevanti dal punto di vista sociale, politico e istituzionale. Per tornare alla domanda, non c’è una ricetta, forse funziona un po’ come un pezzo teatrale. Si parte da temi e, a un certo punto, si decide che la mostra dovrebbe avere un certo tipo di svolgimento e si cerca di agire o di trovare dei luoghi con cui interfacciarsi, istituzioni e attività che possano reagire agli argomenti proposti. C’è anche il tentativo di legare il tutto alla storia locale.

La mostra si snoda attraverso i capitoli «memory», «access», «protection», «mining», «imaging», terminando con «currency»…
Siamo nell’Archivio Corbis, nel sito di stoccaggio di Iron Mountain a Boyers in Pennsylvania, Stati Uniti, dove si trova la famosissima foto Lunch atop a skyscrapers del 1932. Qui è successo quello che non sarebbe mai dovuto accadere: la lastra di vetro è caduta e si è spezzata. È un’immagine interessante perché è considerata quasi come una reliquia, un pezzo di corpo di un santo, e anche se è spezzata viene conservata in una pelican case (contro gli urti) che, a sua volta, è dentro un’altra valigetta. «Perché la conservate in questo modo?», abbiamo chiesto agli archivisti. Ci hanno risposto che innanzitutto rappresenta il trauma dell’archivio, ma allo stesso tempo è la dimostrazione legale che Corbis ha i diritti di utilizzo economici dell’immagine, perché può dimostrare di possedere il negativo, pur se ormai non si può più riprodurre.