“Anche in Perù ci vuole un processo di pace”
Intervista A Roma, il professor Ronald Bustamante, del Movimento per l'amnistia
Intervista A Roma, il professor Ronald Bustamante, del Movimento per l'amnistia
Oggi a Roma, a partire dalle 10, alla Casa del Popolo di Tor Pignattara (via Benedetto Bordoni, 50), le Comunità andine e latinoamericane in Italia e in Europa, organizzano una giornata di riflessione dal titolo “Para la integracion, la paz y derechos de los trabajadores migrantes”.
Si discuterà di mobilità lavorativa, diritti dei figli dei migranti e coperture sociali, mettendo a confronto le legislazioni del Perù, dell’Ecuador e della Bolivia. Si parlerà della situazione in America latina, nei paesi dell’Alba e in particolar modo in Venezuela. Centrale, il tema della soluzione politica nei paesi del Latinoamerica che, come la Colombia, hanno vissuto un conflitto armato lungo oltre 50 anni.
E’ possibile un percorso analogo anche in Perù? Per provare a discuterne, è venuto in Italia Ronald Bustamante, dell’associazione Casa Latina. Docente all’Universidad Popular Rural Abierta di Digne des Bains, (nella Haute Provence, in Francia), Bustamante è militante del Movimiento por Amnistia y derechos fundamentales (Movadef) e della Asociación de Familiares de los Presos Políticos, Desaparecidos y Víctimas de Genocidio del Perú (Afadevig). Lo abbiamo incontrato al suo arrivo in Italia.
Qual è lo scopo del suo viaggio?
La nostra associazione fa parte di quanti, in Perù, ritengono necessaria una soluzione politica ai problemi derivati dal conflitto armato, che si è concluso nel 1992. Gli accordi di pace in Colombia pongono oltremodo in evidenza la necessità di dialogo per superare quel periodo che invece oggi il governo e l’estrema destra vogliono prolungare mediante campagne di odio e di vendetta senza fine contro i vinti, contro i prigionieri, gli ex carcerati, i difensori e quelli che chiedono un’amnistia generale. L’annuncio del presidente Pedro Pablo Kuczinsky di voler demolire le tombe nel cimitero di Coma, a Lima, col pretesto che sarebbero un omaggio al terrorismo, ne è un esempio: un inutile oltraggio alle famiglie degli scomparsi, che da trent’anni chiedono la restituzione dei corpi dei loro cari, uccisi nel massacro del 19 giugno del 1986. Quest’anno, per ordine della Corte interamericana per i diritti umani, sono stati restituiti ai famigliari i resti incompleti di sette prigionieri. A proprie spese, le famiglie hanno costruito un piccolo riparo per contenere le tombe, e per accogliere i resti degli altri uccisi. La destra e i suoi mezzi di informazione hanno però lanciato una campagna, accusando di apologia di terrorismo chi aveva accompagnato la sepoltura. Al coro si è aggiunto il neo presidente per chiedere la demolizione delle tombe. Diffondere nella popolazione la paura del “terrorismo” per apparire come il salvatore, è un’arma usata di frequente. Stiamo raccogliendo le firme per chiedere a Kuczinzky di non distruggere il piccolo mausoleo, eretto secondo gli antichi usi e costumi della nostra gente per onorare i morti: portando fiori e anche musica e danze per ricordarli.
Come avvenne il massacro?
Era il 19 giugno del 1986, ancora nel pieno dell’insurrezione armata iniziata il 17 maggio del 1980 dal Partito comunista del Perù. Era stato preparato da tempo, come dimostrano gli articoli del Nuevo Diario che, già quattro giorni prima, aveva pubblicato le denunce dei prigionieri politici in merito alle manovre della Marina da guerra che facevano temere il peggio. Già l’anno prima, il 4 ottobre del 1985, erano stati uccisi 30 prigionieri. Il 18 giugno del 1986, circa 300 prigionieri organizzano una rivolta in difesa delle loro vite e dei loro diritti: nell’isola penale del Fronton, a Lurigancho (nella capitale) e nel carcere femminile di Callao. In quegli anni, lo Stato cercava di stroncare ogni resistenza con massacri e genocidi, sia nelle campagne che nelle città. Si può ricordare l’assassinio dei giornalisti nel Uchuraccay, nell’83, il massacro di Acomarca dell’agosto del 1985, o i forni crematori della caserma “Los Cabitos” dove, dopo essere stati torturati, i prigionieri venivano inceneriti. Il massacro del 19 giugno ’96 venne ordinato dal presidente di allora, Alan Garcia e dal suo Consiglio dei Ministri. Il 20 doveva iniziare il XVII congresso dell’Internazionale socialista, presieduto dal venezuelano Carlos Andrés Pérez. I prigionieri di Lurigancho furono sterminati quasi totalmente, nel carcere di Callao vennero uccise due donne, e nel Fronton 180: in tutto, 250 morti in un solo giorno. Attualmente, per ordine della Corte interamericana dei diritti umani si sta svolgendo un processo su quei fatti. Alla sbarra c’è il personale della truppa inviata per uccidere e due ufficiali di basso rango. Così si cerca di nascondere la verità e di evitare che Garcia Perez, gli alti comandi delle forze armate e i ministri dell’epoca non siano incriminati. Gli avvocati dei prigionieri hanno sporto denuncia contro questi personaggi perché il processo serva a conoscere la verità
Il conflitto armato ha però prodotto profonde lacerazioni, anche a sinistra.
In Perù, nonostante il conflitto armato sia finito nel ’92, tutti i governi hanno cercato di trarre profitto dalla cosiddetta lotta al terrorismo: la agitano per restringere ulteriormente i diritti, contro le proteste e le lotte del popolo, in particolare quelle delle comunità contadine che difendono i loro territori e l’ambiente contro le compagnie minerarie, petrolifere, forestali.. Si vuole con ogni mezzo criminalizzare il Movadef e il Fudepp, il Fronte di cui il Movimento fa parte. L’anno dopo l’arresto della sua direzione, avvenuto nel ’92, il Partito comunista del Perù ha cominciato a porre la necessità di lottare per un Accordo di pace. Nel 2003, ha evidenziato la necessità di una soluzione politica, di un’amnistia generale e della riconciliazione nazionale. Altri conflitti armati hanno compiuto quel percorso: Guatemala, Salvador, Uruguay e di recente la Colombia ha optato per una soluzione politica. E’ significativo anche il fatto che l’Onu abbia votato per la fine del blocco economico a Cuba. E anche che il Premio Nobel per la pace sia stato dato al presidente colombiano Santos, per il suo ruolo di statista nell’accordo di pace firmato con le Farc e per il dialogo iniziato con l’Eln. Nonostante la sordità anche di settori della sinistra, sta aumentando la consapevolezza che occorra chiudere quel periodo storico, fare un bilancio e trarre insegnamenti per il futuro, smetterla con le guerre intestine e imboccare un percorso di riconciliazione nazionale: per la democratizzazione della società peruviana, per il rispetto dei diritti fondamentali, per una nuova costituzione, giacché quella attuale data del periodo di Fujimori, per un’economia nella quale i mezzi di produzione siano socializzati e il capitale non predomini sul lavoro, per lo sviluppo dell’agricoltura e dell’industria: per costruire una società che promuova la produzione nazionale e generi lavoro per il popolo. Paradossalmente, la campagna della destra per la demolizione delle tombe ha facilitato il dialogo con altre forze. Oggi contiamo sulla solidarietà di parlamentari del Frente Amplio, di dirigenti del Partito socialista, personalità religiose, anche di militari in pensione come il Generale Wilson Barrantes e altri che si sono espressi contro la persecuzione del Fudepp. Martedi 15, si realizzerà un convegno a cui parteciperanno diverse personalità sul tema “Rancore o Riconciliazione”. Speriamo di poter contare anche su una campagna di sostegno a livello internazionale per la pace e la riconciliazione in Perù.
Qual è la situazione dei prigionieri politici? Quanti sono?
Sono circa 300, in parte arrestati per il passato conflitto, in parte per le lotte popolari contro il capitalismo neoliberista. Alcuni compagni hanno 80 anni e ancora ricevono mandati di cattura. Le principali carceri speciali sono il penale della Base navale del Callao, dove sono illegalmente detenuti dirigenti del Pcp e dell’Mrta, tra cui Abimael Guzman, che è da oltre 24 anni in isolamento assoluto, nonostante le proteste delle organizzazioni per i diritti umani. Nel carcere di Castro, nella capitale, vi sono altre decine di dirigenti politici. A Piedras Gorda, c’è Osman Morote. Ha già scontato una sentenza a 25 anni, ma quando stava per uscire gli hanno spiccato altri mandati di cattura. E così è stato per altre due compagne, Margot Liendo y Victoria Trujillo. La maggior parte dei prigionieri è andata nuovamente a processo a partire dal 2003, perché le sentenze precedenti, durante il periodo fujimorista, sono state invalidate. Ma anche le successive condanne sono state comminate in base a testimoni mascherati, come nel periodo precedente. Attualmente vi sono nove nuovi processi per continuare questa politica. Molti compagni che hanno subito pesanti torture sono molto malati, anche in ragione dell’età avanzata, ma non vengono curati. Anche gli avvocati sono a rischio. Di recente, un gruppo difensori è stato accusato di traffico di droga. Solo che quel giorno del presunto traffico gli avvocati erano in carcere dai loro assistiti e la montatura è caduta.
Da quali forze può nascere un’alternativa in Perù?
A un governo già di destra di Ollanta Humala, il 28 luglio di quest’anno è succeduto quello di Pedro Pablo Kuczinsky, rappresentante della destra tecnocrate liberista: il primo presidente che proviene direttamente dall’ambiente delle grandi imprese finanziarie. Abbiamo un parlamento a maggioranza fujimorista, ovvero l’estrema destra neoliberista e populista, che si propone di continuare con la persecuzione e la vendetta senza fine del conflitto armato degli anni ’80 e ’90. Sul piano economico, il Perù ha da secoli un ruolo di esportatore di materie prime. Attualmente i prezzi dei metalli sono scesi e gli investitori minerari per l’esportazione, trainanti nel passato boom economico, sono diminuiti. Il capitalismo neoliberista affronta un contesto di recessione generale in America latina, come ripercussione della crisi economica mondiale che l’imperialismo non riesce a risolvere. George Gray, del Pnud, rileva gli alti indici di povertà. Su 30 milioni di peruviani, 12 milioni sono in situazione di vulnerabilità perché percepiscono introiti tra 4 e 10 dollari al giorno. La sinistra, insieme al Pcp e all’Mrta, negli anni ’80 ha lottato per un cambiamento rivoluzionario, com’è avvenuto in altri paesi dell’America latina in quegli anni. Dopo la sconfitta del ’92, il Pcp ha lavorato per la soluzione politica, l’amnistia generale e la riconciliazione nazionale. Con questi obiettivi, oltreché nell’impegno per i diritti fondamentali del popolo, per una democratizzazione della società, si forma nel 2011 il Movadef a cui, l’anno scorso, si sono unite altre organizzazioni e personalità con le quali si è costituito il Frente de Unidad y Defensa del Pueblo Peruano (Fudepp): con l’intento di partecipare alle elezioni del 2016. Il Jurado Nacional de Elecciones, ci ha però precluso l’iscrizione. Kuczinsky ha detto recentemente che non permetterà a organizzazioni “terroriste” di partecipare alla vita politica. Nonostante il poco tempo, il Fudepp ha costituito comitati dipartimentali e provinciali. Le lotte popolari, specialmente nelle regioni all’interno, hanno creato una coscienza contro il neoliberismo, contro il gran capitale, di cui subiscono quotidianamente le devastazioni. Il Fudepp è riuscito a presentare a registro oltre 500.000 firme richieste per l’iscrizione. Gli iscritti sono in maggioranza giovani, donne con ruoli direttivi o militanti di base, molti provengono dalle zone rurali, ma anche dalle città. In questi anni, si è sviluppata anche un’altra parte della sinistra che, nel clima di persecuzione generale, ha tenuto a marcare la distanza dalle organizzazioni rivoluzionarie, chiamandole a volte “terroriste”. Nei passati processi elettorali ha adottato la politica di “votare il meno peggio”. Così, nel ’90 ha appoggiato la candidatura di Fujimori contro Vargas Llosa, ha sostenuto Toledo, nel 2011 ha appoggiato Ollanta Humala contro Keiko Fujimori, e nel secondo turno delle elezioni del 2016, l’odierno Frente Amplio ha invitato a votare per Pedro Kuczinsky contro Keiko Fujimori. Il Fudepp ha fatto campagna per il voto in bianco. Oggi mettiamo tutto il nostro impegno nella ricostruzione di un blocco sociale anticapitalista capace di unire le lotte, organizzare il potere popolare intorno agli obiettivi a cui accennavo prima per arrivare a un cambiamento strutturale.
Kuczynski ha capeggiato gli attacchi contro il Venezuela e le alleanze sud-sud. Il Perù è una pedina centrale nell’Alleanza del Pacifico a guida Usa. Come vede la situazione oggi che Trump è diventato presidente degli Stati uniti?
Kuczinky, fin dall’inizio del suo mandato e in diverse occasioni, sia nel paese che all’estero, ha insistito sulla necessità di un “intervento umanitario”, ossia militare degli Stati uniti, in Venezuela: in linea con gli interessi che lo muovono. Credo che Trump acuirà il conflitto con Cina e Russia per il dominio dell’America latina. Kuczinky si è recato ultimamente in Cina perché il progetto minerario più importante, quello di Las Bambas è con capitale cinese. Il capitale cinese è molto presente in America latina. Trump rappresenta il Partito Repubblicano, una delle fazioni della borghesia imperialista nordamericana. Di fronte alla crisi generale del capitalismo, non potrà che continuare la tendenza alla guerra, i processi di destabilizzazione, latenti o palesi in America latina, con l’appoggio di altri governi pro-imperialisti della regione.
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