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Anarchie e forze arcaiche vitalistiche, verso nuove forme documentarie

Anarchie e forze arcaiche vitalistiche, verso nuove forme documentarieCecilia Mangini

Cecilia Mangini Ogni film della regista scomparsa a 93 anni, è un prototipo, un combattimento con la rappresentazione ingenua del mondo

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 23 gennaio 2021

Ogni film di Cecilia Mangini è un prototipo, un combattimento con la rappresentazione ingenua del mondo, contro la semplificazione realistica del documentario precotto. Uno dei suoi grandi meriti sta proprio in questo: avere allargato l’ammissibilità del racconto «dal vero», in anni in cui la vulgata del cortometraggio risulta fortemente segnata da diktat produttivi e semplificazioni estetiche. Ma non solo: la vicinanza col Pci non le impedisce di esplorare narrazioni dis-organiche alla linea di partito, in una indomita libertà espressiva: come in Felice Natale (1965), dove l’illustrazione dello spreco di denaro e della corsa verso gli acquisti sembrano appartenere al cinema di Godard o a certi documentari di Alain Resnais. Le immagini, frenetiche, di cartamoneta nelle mani di cassieri, banchieri, gente comune, sono alternate al ciclo di spennamento in una fabbrica di polli, nonché a canti di monaci in convento, in un divertissement anticapitalista molto lontano dai documentari in stile Unitelefilm, prodotti dal PCI.

SIN DAL SUO ESORDIO il cinema della Mangini accoglie forze vitalistiche arcaiche, dubbi sui processi di industrializzazione, sguardi critici, o pieni di pathos, assolutamente anarchici. Lo si percepisce già in Ignoti alla città (1958), Stendalì (1960) e La canta delle marane (1961), dove umanità antiche traggono linfa dall’apporto offerto da Pasolini al commento dei film. In Ignoti, giovani del sottoproletariato romano sopravvivono frugando fra i rifiuti, rubacchiando nei mercati, giocando in spiazzi periferici. L’aria del film è dimessa e il commento pasoliniano non rileva nessuna redenzione, ben lontano dalla fiducia dei documentari filo-governativi. Medesimi protagonisti compongono l’ambientazione de La canta delle marane, dove alcuni ragazzini schiamazzano nell’acqua paludosa dei laghetti alle porte della città.

ALLE MUTAZIONI nella forma degli ambienti di vita corrispondono lacerazioni di una umanità sacrificata ai nuovi valori in arrivo: la destorificazione di Roma, «stupenda e misera città» pasoliniana, emerge in un vitalismo appassionato, pieno di amore, in una sfrenata dedizione poetica. Fra i due film esce Stendalì (1960), illuminato da Morte e pianto rituale di Ernesto De Martino. L’opera dell’antropologo è un vero e proprio coup de foudre per Cecilia Mangini e il suo compagno, Lino Del Frà, che partono per filmare i canti funebri dei paesi di lingua grica del Salento. Sulle anziane dicitrici di nenie, ritmate dal movimento di fazzoletti tesi fra le mani, Pasolini compone un poema ispirato ad antichi canti, declamati dall’attrice Lella Brignone.
Più che gli aspetti dottrinali della fede, sono le prassi rituali e i processi mitico simbolici a costituire il collante filosofico di esperienze immerse nei dilemmi della urgent anthropology: quanto è giusto filmare ciò che sta scomparendo, rimetterlo in scena, chiedere alla memoria degli anziani di ricostituire il rito che sta scomparendo? Questioni teoriche importanti, di cui Cecilia è ben consapevole: in ogni caso De Martino apprezza il film ma Stendalì non è gradito agli etnologi del Museo delle arti e tradizioni popolari di Roma che rivendicano una «scientificità» maggiore, metodologie controllate e scientificamente attendibili. All’opposto, i film della Mangini esalano libertà da ogni fotogramma: come in Maria e i giorni (sempre del 1960), in cui la prospettiva meridionalista è lontanissima dal paradigma, maggioritario in quegli anni, di culture della sconfitta.
La protagonista – che vive nella masseria vicino a casa del nonno della Mangini – è una contadina che segue felicemente i suoi rituali: pratiche magiche, fatture, scongiuri, osservati senza nessuna volontà di redenzione da parte della regista.

E SENZA NESSUNA VOCE narrante a imporre condanne o pseudo riscatti. Ecco, la voice over, fantastica la sua disparizione, sulle orme di Vittorio De Seta e Raffaele Andreassi. Come in Divino amore (1961), dove una colonna sonora sperimentale, composta da Egidio Macchi, libera il film da qualsiasi referenzialità religiosa ed esalta quella libertà, quello scavo documentario, fondamentale per comprendere la grandezza del cinema di Cecilia Mangini.

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