Si avvia alla conclusione questo 42° Festival del teatro della Biennale. Stasera ancora due spettacoli importanti tra quelli invitati dal direttore Alex Rigola: uno dei Peeping Tom e uno di Thomas Ostermeier (Un nemico del popolo di Ibsen realizzato alla Schaubühne di cui è direttore). Domani il gran finale con i cinque frammenti shakespeariani (dalle 11 alle 15, alla Giudecca) realizzati nei laboratori di cui l’ente veneziano va particolarmente fiero. Del resto la Biennale College, oltre alle molte implicazioni di incrocio dei linguaggi e possibili scambi di esperienze, funziona anche nella formazione di un nucleo compatto e motivato di pubblico, ché di quello normale non vi è grande traccia, vuoi per l’ambientazione feriale ad agosto, sia anche per le condizioni di caldo straordinario che hanno reso Venezia poco frequentabile e pressoché impercorribile questa settimana.

Tornando ai frammenti di spettacolo realizzati con i «maestri» dai giovani allievi (che ogni tanto si lamentano per aver dovuto affrontare oltre al costo dell’iscrizione anche quello del soggiorno e mantenimento), sono stati incentrati quest’anno ognuno su un personaggio del sommo autore inglese, e affidati ciascuno a un regista, da Kristian Lupa a Jan Lauwers a Gabriela Carrizo a Claudio Tolcachir a Angelica Liddell. Ognuno di loro è stato ospite della rassegna con un proprio spettacolo, con alterne fortune di interesse ad essere onesti. Il regista polacco ha ambientato lo squinternato ménage della famiglia Wittgenstein secondo Thomas Bernhard in Ritter Dene Voss, ondeggiando tra naturalismo sfrenato e cechovismo lungo una durata monstre di oltre tre ore e mezza. Una conferma personalissima di stile.

Irresistibile come sempre l’argentino Tolcachir, ormai di casa in Italia (anche questo Vento in un violino fa parte di una trilogia vista a Napoli poche settimane fa) e incredibilmente godibile nonostante la drammaticità dei temi affrontati: una coppia di giovani lesbiche che vogliono un figlio, il «padre» prescelto che ha grossi problemi con la propria madre ossessiva, e con un analista (ugualmente pagato dalla madre) cui racconta in continuo bugie, venendo ripagato con un’offerta di lavoro (sempre garantito dalla madre impicciona) non come segretario, ma semplice fattorino. L’arrivo del neonato movimenterà ulteriormente la situazione, fino a lambire il Pirandello de La ragione degli altri. La scena di Buenos Aires si conferma tra le più vitali al mondo, e viene voglia di conoscerne sempre di più.

Per qualche curioso paradosso, appare invece più ripetitiva, addirittura a rischio di stereotipo, quella del nord Europa, in particolare quella, pur vitalissima, del Belgio. Jan Lauwers e i suoi Needcompany praticano da sempre un teatro scanzonato e volutamente «pasticcione», che passa dalla parola alla mimica, dal canto a qualche ironico e storpiato passo di danza (niente a che fare col teatrodanza, come qualcuno incautamente suggerisce). Qui, in Marketplace 76, purtroppo la traccia del racconto viene rinvenuta in un fattaccio con infinite implicazioni di violenza (familiare, sessuale, istituzionale), e l’equilibrio tra il minimizzare e l’accettare tutto questo non può sfociare semplicemente nel «casinismo» programmatico.

Giganteggia a questo punto la performance di Angelica Liddell, che stupisce e spiazza perfino i suoi ammiratori abituali. È anche questa una riscrittura shakespeariana (quella del laboratorio che mostrerà domani vede protagonista «Lucrezia stuprata», non semplicemente rapita o violata, tiene a sottolineare l’artista), dedicata a una creatura tra le più smodate, sanguinarie e contraddittorie di quella temperie, Riccardo III. [do action=”citazione”]Col titolo L’anno di Riccardo, Liddell riscrive in un monologo, con grande fedeltà al testo originario, i deliri di quel re, lotte dinastiche tra una birretta e un’altra, ammazzamenti e congiure con gli occhi pesantemente bistrati, e un completino notturno di foggia cinese.[/do]

Lei urla e canta (citando gustose canzonette anni 50 con un metodo che evoca Pippo Delbono), fa la voce grossa e quella da bambino, incollata a un microfono che dal suo palato fa esalare fonazioni degne di Carmelo Bene. Schermata dietro la gobba di Riccardo spara a zero contro valori e luoghi comuni della sinistra (compreso il povero Primo Levi e tutti gli ebrei dell’Olocausto). Mostrando ogni possibile fisiologia sopra e sotto le proprie mutande (dal piacere della minzione all’offerta sessuale a un cinghiale impagliato), attacca e denuncia il potere e ogni sua possibile deformazione. Se una pazzia non può ulteriormente impazzire, può però evocare una sorta di big bang. Pur condividendo con Rodrigo Garcia molti elementi linguistici della scena, non ne fa discorso politico o da condividere. La sua anarchia è totale, così come «l’ingratitudine» o il disprezzo per la memoria storica. È una performance molto diversa dalle precedenti (quelle viste ad Avignone e anche a Modena). Il gioco di specchi con Riccardo III, può sembrar costituire un punto di non ritorno. Ma a vederla esausta e trionfante alla fine dello show, c’è da giurare che andrà ancora più in là.