Visioni

Anagoor e la discesa negli inferi: alle radici del male

Anagoor e la discesa negli inferi: alle radici del maleUna scena da «Ecloga XI» – foto di Giulio Favotto

A teatro Nell'ambito del Festival Vie in scena «Ecloga XI» dell'ensemble guidato da Simone Derai.

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 22 ottobre 2022

La poesia di Zanzotto e la musica di Jean Philippe Rameau, la distruzione delle civiltà precolombiane per opera dei conquistadores spagnoli e l’olocausto di Hiroshima, e a far da tratto di congiunzione il radicamento nella provincia veneta che connota fin dagli inizi il lavoro di Anagoor, l’ensemble guidato da Simone Derai. Non è senza significato che in questa Ecloga XI, presentata a Vignola per Vie festival, torni il richiamo figurativo alla Tempesta del loro conterraneo Giorgione, già genius loci del raffinato debutto teatrale della compagine di Castelfranco. Dell’enigmatico dipinto di Giorgione è riprodotto un particolare molto ingrandito, il solo riquadro centrale. Il ponte che passa sopra al fiume che costeggia una città. Il cielo tempestoso solcato da un fulmine. Il paesaggio è privato delle figure umane di contorno, il giovane uomo appoggiato a un’asta, la donna seminuda che allatta un bambino – tornerà viva nel finale dello spettacolo.

I DUE INTERPRETI, Leda Kreider e Marco Menegoni, ne esplorano meticolosamente la superficie illuminandola a brani con due neon. E intanto dialogano con le parole di Zanzotto che dicono che non è vero che la poesia nasca dal dolore. Un omaggio presuntuoso alla grande ombra di Andrea Zanzotto, dice il sottotitolo di Ecloga XI, ed è un deflagrare di sottotesti. Giacché «omaggio presuntuoso» era quello rivolto dal poeta di Pieve di Soligo all’ombra luminosa di Virgilio, così definiva le sue IX Ecloghe, volutamente ferme all’unità che precede le dieci delle Bucoliche. Poi però i due, Eva e Adam potremmo chiamarli, cominciano a stendere sul dipinto strati di una vernice scura, fino ad annerirlo completamente. Uno sfregio ma forse anche un grido di ribellione all’impotenza dell’arte di fronte all’orrore della storia umana. Ci aspetta una discesa agli Inferi, come Virgilio appunto nel sesto libro dell’Eneide. I crimini contro l’umanità che segnano una linea di frattura nel mezzo del Novecento.

Dell’enigmatico dipinto di Giorgione è riprodotto un particolare molto ingrandito, il solo riquadro centrale. Il ponte che passa sopra al fiume che costeggia una città

ALL’IMMAGINE impressa nella memoria del paese natale dato alle fiamme dalle SS, le donne spinte a calci fuori dalle case, i morti contro i muri, risponde la lettera che Günther Anders, il filosofo tedesco che fu marito di Hannah Arendt, scrisse nel 1959 a Claude Eatherly, l’inconsapevole pilota che sganciò la bomba su Hiroshima, segnato per sempre dal sentimento della colpa. All’uscita non ci aspetta il riveder le stelle ma un’altra selva oscura, dove pendono come strani frutti dei neon violacei. E pure è lì che si ricompone la scena della maternità sottratta alla Tempesta. Un dar forma al futuro, ormai nell’assenza degli dèi.
A Rimini invece, per la Sagra Malatestiana, va in scena al teatro Galli Les Incas du Pérou, secondo dei quattro tratti dell’opéra-ballet settecentesca Les Indes galantes di Jean Philippe Rameau, celebrazione dell’incontro dell’Europa con gli altri continenti. È l’opera più giusta e più sbagliata per questo nostro tempo, dice Derai. Nella vicenda della principessa inca Phani innamorata del conquistador spagnolo Carlos cui vorrebbe strapparla il deprecato sacerdote del culto del Sole Huascar, si proiettano inevitabilmente i pregiudizi della civiltà occidentale dell’epoca ma anche i bagliori dell’illuminismo che contrappongono ragione a superstizione.

L’ARTEFICE di Anagoor questa contraddizione l’assume per intero, senza negarla ma scegliendo di mettere in crisi la rappresentazione, la possibilità stessa di rappresentare l’azione, per lasciare l’opera musicale nella sua nudità. I tre cantanti, Ekaterina Protsenko, Nicholas Scott e Renato Dolcini, privi di costumi di scena, stanno immobili. Messo da parte il filtro dell’esotico, Derai trasporta di peso sullo schermo la storia d’amore che si svolge sullo sfondo della conquista del Peru, in un film che ha per protagonista la comunità peruviana stanziata nelle campagne del Veneto, fra campi di mais e allevamenti di lama e alpaca.
La rappresentazione ritorna in tal modo come collettivo rito campestre o di suo making of, dove si proiettano anche a mo’ di didascalie le tappe storiche della conquista e dello sterminio dei popoli nativi. Sarà un’eruzione vulcanica a mettere di nuovo in sincrono la musica di Rameau con l’immagine di una terra bruciata.

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