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Amplificazione, l’evoluzione corre sul palco

Amplificazione, l’evoluzione corre sul palcoLa copertina di «Made in Japan», tra i dischi dal vivo più noti del rock

Storie/Come l’avvento del rock e di sonorità più dure hanno cambiato l’ascolto della musica dal vivo Dalle tecniche degli anni Settanta sviluppate da nomi come Charlie Watkins, Bill Hanley e Owsley Stanley, fino ai giorni nostri

Pubblicato circa un anno faEdizione del 21 ottobre 2023

Quando i Beatles salirono per l’ultima volta su un palco insieme, il 29 agosto 1966 al Candlestick Park di San Francisco, si ritrovarono in mezzo a uno stadio di baseball, circondati, lontanissimi, sulle tribune, da 25 mila ragazzi e ragazze costantemente urlanti. Per i Fab Four c’erano due monitor agli angoli anteriori del palco, gli amplificatori con un microfono ciascuno e la batteria con la sola cassa microfonata. Il tutto confluiva negli altoparlanti dello stadio utilizzati per i comunicati durante le partite. Il rock era diventato grande, non più di pertinenza di piccoli locali o teatri ma una faccenda da stadi, pur trattandosi, in questo caso, ancora di un’eccezione. Il garbo con cui veniva proposta fino ad allora la musica dal vivo dovette fare i conti con sonorità sempre più dure, chitarre elettriche, organi Hammond, batterie pulsanti e travolgenti, vocalità prorompenti, a beneficio di un pubblico sempre più ampio che non stava più nei piccoli spazi. Fu l’ultimo concerto dei Beatles, sfiniti da una situazione che non gli permetteva più di suonare adeguatamente, tanto meno di sentirsi. Ringo Starr ha più volte dichiarato che negli ultimi tempi per sapere a che punto fosse il pezzo doveva basarsi sui movimenti dei compagni. Paul, John e George spesso erano costretti a osservare su quali note stavano andando le mani degli altri per capire in che tonalità fosse la canzone. Probabilmente con a disposizione gli impianti voce che qualche anno dopo sarebbero diventati la normalità, avrebbero considerato con più benevolenza l’ipotesi di riprendere a suonare dal vivo. Ci volle un anno ma già dal Monterey Pop Festival del giugno 1967 le cose cambiarono radicalmente con l’arrivo di quello che è l’antesignano dei moderni PA (Public address system)

L’ANFITEATRO GRECO
Gli albori del concetto di amplificazione risalgono agli antichi greci e all’Impero romano, grazie ai principi dell’architetto Vitruvio che concepiva gli anfiteatri in maniera semicircolare con le sedute progressive verso l’alto a più livelli, sia per una veduta ideale dello spettacolo ma anche per catalizzare meglio il suono e consentire un ascolto ottimale. Anche in anni più recenti, la musica classica veniva composta in base al luogo in cui sarebbe stata suonata e proposta. La musica corale era solitamente lenta e solenne perché doveva essere ascoltata in chiese enormi e riverberanti. La musica sinfonica era grandiosa e maestosa perché il luogo d’ascolto erano grandi sale e teatri. Allo stesso modo la musica da camera, che, come dice il nome, si suonava in stanze dalle misure contenute, era scritta in modo che si potessero distinguere archi e sfumature più veloci. I compositori partivano da un concetto di musica già «mixata» scrivendo le parti specifiche di ogni strumento per ottenere l’equilibrio desiderato di ogni brano musicale. PA, sono appunto le iniziali di «Public Address», inteso come mezzo di comunicazione per raggiungere più persone possibili all’interno di stazioni ferroviarie, stadi, negozi, ospedali, aeroporti o hotel. Fino alla fine del XIX secolo, tutte le forme di comunicazione al pubblico venivano eseguite utilizzando l’acustica architettonica: non esistevano alternative praticabili per migliorare l’amplificazione del parlato. Nel 1875 l’inventore e professore di musica britannico-americano David Edward Hughes creò il microfono a carbone. Lo chiamò «microfono» per assonanza con il microscopio. Nacque così il primo componente di un sistema PA moderno. Poco prima della fine del secolo il fisico britannico Oliver Lodge inventò il primo altoparlante sperimentale a bobina al mondo, conosciuto come il «telefono urlante», alla base del principio che regola gli altoparlanti moderni: un diaframma fatto vibrare da una bobina mobile, il cui suono veniva poi amplificato da un corno svasato. Nel 1906 l’inventore americano Lee DeForest crea l’Audion, primo dispositivo in grado di amplificare un segnale elettrico. Edwin Jensen e Peter Pridham, ingegneri della società di elettronica americana Magnavox, durante una serie di test in laboratorio dal 1911 al 1915, collegarono un microfono e un altoparlante a una batteria da 12 volt, determinando il primo verificarsi di feedback acustico. Il Magnavox diventa così il primo sistema PA elettrico al mondo, presentato a San Francisco il 24 dicembre 1915, con 100mila persone che si affollarono per ascoltare la trasmissione di musica e discorsi natalizi. L’impianto fu utilizzato dal presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson per parlare a una folla di 75mila persone a San Diego. Anche la società britannica di telecomunicazioni Marconi per tutti gli anni Venti ha prodotto parecchi sistemi PA per far fronte a un mercato sempre più in espansione ed esigente. Durante la seconda guerra mondiale vennero progressivamente perfezionati anche in funzione militare ma fino agli anni Cinquanta rimasero impianti di bassissima potenza, non superiori ai 25 watt. Fu l’avvento del rock’n’roll che impose la necessità di un’amplificazione che permettesse alle voci (e ad altri strumenti come fiati o pianoforte) di sentirsi sopra la potenza degli ampli da chitarra che arrivarono in breve tempo dai 50 ai 100 watt.

FAI DA TE
Negli anni Sessanta il problema divenne impellente perché molti locali non avevano impianti adeguati. Proprio per questo molti gruppi incominciarono a portarsi un impianto voci, insieme agli strumenti, che fosse consono al loro sound. Molto spesso erano i gruppi a sistemare i volumi, non di rado regolandoli loro stessi durante il concerto, senza avere tecnici del suono in sala. Quando i Beatles suonarono allo Shea Stadium di New York, nell’agosto del 1965, provarono ad ovviare al consueto problema che li attanagliava, distribuendo quattro casse da 175 watt ciascuna nello stadio per rendere intellegibile il suono. Ma 42mila persone urlanti produssero qualcosa come 140 decibel di rumore (pari a quello del decollo di un aereo a reazione), esattamente il doppio di quello dell’amplificazione.
Il fonico Charlie Watkins è considerato il «padre britannico dell’amplificazione». Creò di fatto la disposizione mixer-amplificatore-altoparlante che figura ancora nella maggior parte dei sistemi PA contemporanei. Al Windsor Jazz & Blues Festival del 1967, Watkins presentò il suo sistema Slave PA, in grado di generare 1.000 watt di potenza. Da quel momento le modalità inventate da Watkins divennero la norma nei festival musicali britannici. Sempre nel 1967 John Meyer, successivamente fondatore della Meyer Sound Laboratories, fu il protagonista del leggendario Monterey Pop Festival per il quale elaborò un impianto di amplificazione a beneficio iniziale della Steve Miller Band. «A quel tempo era tutto nuovo, con questo stile musicale appena nato. Mi sono reso conto che avremmo dovuto iniziare a costruire un’intera nuova generazione di apparecchiature in grado di far fronte a questo livello di festival all’aperto. Monterey ha davvero aperto le cose. È stato un evento importante e sapevo che non sarebbe finita lì». Dal 16 al 18 giugno 1967 trentaseimila persone videro così all’opera Who, Hendrix, Janis Joplin, Canned Heat con un ascolto adeguato. Nonostante nessuno si aspettasse il mezzo milione di persone, al festival di Woodstock di sicuro era prevista una vasta affluenza di folla. Gli organizzatori si premurarono in anticipo per dare un ascolto adeguato al pubblico. Michael Lang: «Saltò fuori questo pazzo di Boston che avrebbe voluto provarci. Bill Hanley aveva acquisito una certa fama sulla costa orientale, al Newport Folk Festival, al Newport Jazz Festival e ai concerti di Bill Graham al Fillmore East. Il suo obiettivo era semplice: dare a chi è seduto nell’ultimo posto la stessa esperienza di chi è in prima fila». Con la sua troupe pianificarono di piazzare le casse su una piattaforma sopraelevata costruita con compensato e impalcature a 22 metri di altezza a sinistra del palco. Il sistema era progettato per fornire l’audio a 200mila persone (secondo quanto riferito il più grande fino a quel momento) ma alla fine ha raggiunto le orecchie di 500mila astanti con una buona qualità. Ai tempi Hanley non si rendeva conto che stava facendo la storia dell’audio. Interessante, osservando foto e filmati dell’evento, di come siano stati utilizzati, rispetto alle abitudini odierne, pochissimi microfoni. La batteria di Michael Shrive dei Santana o quella di Keith Moon degli Who ne hanno, ad esempio, non più di quattro (rullante, cassa, timpano e un panoramico). Gli anni Settanta consacrano e perfezionano, stabilendo degli standard, il concetto di impianto voci. Nel febbraio del 1970 Bob Heil costruì un impianto appositamente per i Grateful Dead, apportando innovazioni mai sperimentate in precedenza, riuscendo, grazie a un sistema di microfonaggio particolare, ad evitare che l’aumento del volume provocasse dei feedback durante il concerto. L’impianto fu portato fino a 20mila watt e accompagnò tutto il tour della band, diventando un riferimento per i futuri impianti di amplificazione, soprattutto per gli Who che lo ingaggiarono per la tournée americana ed europea dell’album Who’s Next. Pete Townshend gli commissionò un’ulteriore evoluzione, riuscendo ad arrivare a una potenza sonora di 115 decibel, posizionando quattro altoparlanti nei quattro angoli dei palasport in cui suonava la band. I Deep Purple provarono a rubare agli Who lo scettro di band più rumorosa del mondo ma senza successo. Nel 1976 Townshend e compagni al Valley di Londra arrivarono a 126 decibel. Bob Heil fondò la Heil Sound e lavorò con numerose altre band.

IL MIXER
Nel 1973 Owsley Stanley, fonico e progettista ma soprattutto produttore e spacciatore di LSD creò sempre per i Grateful Dead l’impianto Wall of Sound, un muro di casse dalla potenza di oltre 25mila watt che permetteva alla band di suonare senza spie sul palco perché i musicisti suonavano davanti alle casse, ascoltando lo stesso suono di cui usufruiva il pubblico. La band lo utilizzò fino agli inizi degli anni Ottanta quando una struttura del genere diventò obsoleta a fronte della possibilità di ottenere performance simili senza dovere spostare un’incredibile massa di materiale tecnico. Nel 1974, la casa produttrice britannica Soundcraft rivoluzionò il settore con la Series 1, la prima console di missaggio integrata in un flight case, a 12 e 16 canali, diventato universale tra i mixer analogici. Fu in questo periodo e grazie alla Soundcraft che il mixer incominciò ad essere posizionato di fronte al palco per ascoltare ciò che effettivamente arrivava al pubblico, modalità che al giorno d’oggi pare ovvia e scontata ma che ai tempi fu una vera e propria innovazione per una corretta fruizione del suono. Contemporaneamente con il potenziamento degli impianti si rese necessario fornire i musicisti di stage monitor o spie. Bill Hanley progettò così delle casse inclinate a 45 gradi da posizionare a terra in direzione dei musicisti, collegate a un mixer indipendente da gestire direttamente dal palco in base alle esigenze di ogni singolo componente della band che poteva e può utilizzare il volume adatto. Un sistema ancora più che attuale. Nel 1987, la Garwood Communications ha prodotto Radio Station, il primo sistema IEM wireless in commercio. Oltre a risolvere i problemi di volume del palco, il sistema ha anche dato ai musicisti la libertà di muoversi su palchi di grandi dimensioni e continuare a sentire il loro mix del monitor senza essere legati a un’unica posizione. Anche se i Pink Floyd iniziarono a utilizzare cuffie sul palco già negli anni Settanta. Sempre nel 1987 arriva il mixer audio digitale creato dalla Yamaha, il DMP7: un mixer automatizzato per consentire ai tastieristi di gestire la loro gamma sempre più complessa di tastiere e di modificare automaticamente le impostazioni durante gli spettacoli. E che poi è stato fruito progressivamente da ogni strumentista. Con il digitale la qualità del suono è sensibilmente migliorata, anche in virtù della possibilità di configurare i volumi dei canali e poterli «richiamare» automaticamente senza doverli fissare in modo potenzialmente non preciso. Potendo inoltre perfezionare la qualità del mix sera dopo sera. I mixer digitali possono gestire un’elaborazione maggiore, accogliere un numero infinito di effetti ed essere logisticamente più contenuti in grandezza, maneggevoli e precisi. La conseguenza è stato il progressivo abbandono delle console analogiche. Un ulteriore miglioramento arrivò nel 1993 grazie a Christian Heil della Heil Sound che introdusse il V-Dosc un sistema di casse che rivoluzionò l’ascolto. Precedentemente, la potenza che usciva dell’impianto si disperdeva sulla distanza, chi era più vicino sentiva più alto, chi si trovava lontano riceveva volumi più bassi e meno fedeli. Il nuovo sistema lavora con casse adiacenti che si rinforzano nel suono l’una con l’altra favorendo una dispersione del suono orizzontale ottimale che consente una qualità di ascolto (soprattutto nei locali) uguale per tutti gli spettatori.
La tecnologia ormai fornisce costanti margini di miglioramento e sofisticazione, continuando però a basarsi su quelle fondamenta descritte più sopra, risalenti all’era pionieristica del contesto. Spesso scontrandosi però con l’inadeguatezza dei locali o delle location che ospitano i concerti, a poter consentire il massimo dello sfruttamento delle capacità dei nuovi impianti per farci ascoltare la musica nel migliore dei modi. A un’evoluzione tecnologica non corrispondono, purtroppo, se non in rari casi, luoghi in cui i frutti del progresso possano essere assaporati nel giusto modo.

UN RECORD
Gli Iron Maiden detengono il record di grandezza di un impianto voci, quando nel 1988 al Monsters of Rock Festival di Castle Donnington schierarono 360 casse Turbosound sviluppando mezzo milione di watt raggiungendo un picco di 140 decibel durante il loro concerto (a cui parteciparono, davanti a oltre 10mila persone, anche Van Halen, Kiss, Metallica, Guns N’ Roses).

LA CULLA DEL NORTHERN SOUL
Dave Clegg, protagonista a lungo della scena soul inglese, ha sottolineato quanto fosse importante la potenza e la qualità degli impianti all’interno dei locali che suonavano Northern Soul a metà degli anni Settanta nel nord dell’Inghilterra: «La musica funzionava al Wigan Casino (mitico locale, “patria” della scena Northern Soul, ndr) soprattutto per la sua acustica. C’era questa grandissima sala e se prendevi ad esempio un brano come Heaven Is in Your Arms degli Admirations e lo sentivi dal balcone suonava splendidamente. Poi ne compravi una copia, la portavi a casa e sembrava una canzoncina per bambini. Se la canzone aveva il ritmo giusto funzionava, con la gente che ballava come pazza facendo acrobazie».

IL SENSO POLITICO DEL SOUND SYSTEM
Dal libro di Fabio Fantazzini Dread Inna Inglan, un passaggio che sintetizza l’importanza dei sound system nella cultura anglo caraibica negli anni Settanta.
«I sound system, come altri esempi all’interno della diaspora nera, assumono la funzione di rappresentazione di un blocco sociale sistematicamente escluso dai vari organi del sistema. Si configurano come spazi di resistenza culturale rispetto all’esclusione e alla marginalizzazione della comunità nera da parte delle istituzioni. In secondo luogo acquisiscono maggiore rilevanza politica in quanto vettori comunicativi di messaggi (siano essi la cronaca di un evento o inviti alla ribellione) durante il picco del conflitto da istituzioni inglesi e controcultura nera (…) I sound system oltre ad essere un luogo di divertimento, sono uno spazio pubblico di scambio di informazioni e di discussione. Il sound system britannico che, in particolare negli anni Settanta, diventa uno spazio politico e un potente vessillo identitario. Rispetto al reggae registrato su disco e ai club del centro che suonano soul, il sound system è un luogo dove si celebra e si difende l’identità nera senza compromessi, dove si sperimentano nuove forme musicali che influenzeranno tutta la musica britannica (e non solo) nei decenni avvenire e dove si raccontano e condividono le vicende di una comunità al tempo letteralmente presa d’assalto da istituzioni, polizia ed estremisti di destra».

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