Cultura

Amparo Dávila, quel dolce perturbante

Amparo Dávila, quel dolce perturbanteUn ritratto di Amparo Dávila

Narrativa latinoamericana «Morte nel bosco e altri racconti» della scrittrice messicana, per Safarà. Nelle sue storie una voluta ambiguità tra le ombre interiori e domestiche, e la minaccia del mondo su cui non si ha alcun controllo. Oggi a Firenze nell'ambito di Testo, alle 17 nella Sala Munari 2 della Stazione Leopolda, un laboratorio di traduzione con Giulia Zavagna a partire dall’opera dell’autrice scomparsa nella primavera del 2020

Pubblicato più di un anno faEdizione del 25 febbraio 2023

Una donna misteriosa, di cui si sa soltanto quel pochissimo che diceva di sé: un’infanzia borghese ricca di fantasie e di letture, trascorsa in uno spettrale paesetto; il matrimonio fallito con un famoso pittore; il lavoro come segretaria di un intellettuale celebre, Alfonso Reyes; gli anni dedicati alla maternità e a impieghi di scarso lustro… Una vita lunghissima e appartata, quella di Amparo Dávila (nata a Pinos nel 1928 e scomparsa nel 2020), connotata dal silenzio ma anche dall’esercizio di una scrittura che la rende quasi unica nel panorama letterario del suo Paese, anche se qualcosa la accomuna ad altre scrittrici messicane nate nella prima metà del Ventesimo secolo: pur differentissime tra loro, non sono poche quelle che, come Dávila, ci hanno lasciato un’opera di grande valore, ma sono uscite in fretta dall’orizzonte editoriale.

A RISCATTARLE e a dar loro un’ampia visibilità è stata una nuova e approfondita rilettura critica, che oltre a indicarle all’attenzione del pubblico contemporaneo le ha rese un punto di riferimento per altre e più recenti scritture: nel caso di Dávila, per esempio, il fascino che esercita sulle autrici messicane di oggi si manifesta attraverso riscritture (Veronica Gerber ha rielaborato uno dei suoi racconti più famosi) o presenze fantasmatiche (Isabella Blum l’ha inserita come personaggio in un suo romanzo, e lo stesso ha fatto Cristina Rivera Garza), che recuperano e citano temi e figure caratteristiche dei suoi testi.

A partire dal 2009, quando il Fondo de Cultura Economica ha raccolto tutta la sua narrativa in Cuentos reunidos, i racconti di Dávila hanno avuto più edizioni e sono stati tradotti in molti Paesi, compresa l’Italia, dove Safarà pubblica a giorni Morte nel bosco (pp. 271, euro 19,50), tradotto come il precedente L’ospite (2020) da Giulia Zavagna, che ha affrontato brillantemente il compito di restituire in italiano, senza tradirlo né banalizzarlo, uno stile fondato su atmosfere e immagini singolari.

I TRENTASETTE RACCONTI dei due volumi costituiscono l’intera opera in prosa di Dávila (autrice anche di alcune raccolte di poesia), scritta nell’arco di cinquant’anni: pochi titoli che però sono bastati per creare attorno all’autrice un alone di leggenda e per metterla al centro di analisi numerose quanto discordanti. C’è chi la paragona sbrigativamente a Shirley Jackson, chi la collega a Borges e a Kafka, e quasi tutti segnalano la sua appartenenza al territorio del fantastico o del «gotico femminile», né manca chi parla di un’evidente parentela col surrealismo, mentre si fa avanti un’interpretazione che lega le sue protagoniste femminili – siano mogli stanche o donne solitarie, prigioniere di matrimoni soffocanti e amori da poco – alla sotterranea rivolta contro ruoli e norme che pretendono di modellarne i corpi e le esistenze.

DÁVILA, PERÒ, sembra sfuggire a ogni tentativo di trafiggere con un spillo il corpo oscuro delle sue storie, per conservarle sotto vetro come insetti inquietanti o mostruosi; un dettaglio, una svolta spiazzante finiscono sempre per sottrarla a classificazioni ed etichette, vanificando la collocazione in un genere preciso. Quel che il lettore non potrà fare a meno di notare è l’estrema coerenza dell’autrice, che ricorre invariabilmente ad ambientazioni modeste e riconoscibili (interni domestici, uffici, giardini ben recintati) e disegna una normalità fatta di eventi minimi per poi insinuarvi un elemento inspiegabile e destabilizzante, così da introdurre a poco a poco il disagio, la paura, lo scivolamento verso la follia o la morte.

Estranei inafferrabili invadono tranquille abitazioni piccolo borghesi, si impadroniscono delle stanze, lanciano richiami dagli specchi, impediscono il sonno, affiorano negli sguardi di una ragazza timida rivelandone la nascosta ferocia, o costringono una madre di famiglia a scoprire che il suo austero marito si è trasformato in un nuovo, piagnucoloso figlio bambino. Ma il terrore, l’urlo finale, l’annichilimento, non sono necessariamente di origine paranormale e ultraterrena: grazie all’abile reticenza dell’autrice, non sappiamo mai se i personaggi non stiano in realtà affrontando le proprie ombre interiori, o il senso di minaccia generato da un mondo sul quale non hanno controllo e dove tutto viene tramato e deciso da poteri sconosciuti, in un imprecisato «altrove».

FORSE LA NARRAZIONE di Dávila è, in fondo, uno specchio paranoico che non si stanca di riflettere un orrore del quale sospettiamo l’esistenza, ma che riusciamo a intravedere solo con la coda dell’occhio. E non c’è dubbio che pochi autori riescano, come lei, a evocare un terrore che lo scrittore e critico messicano Severino Salazar ha definito postmoderno, in un’epoca in cui «ogni solida certezza è svanita nell’aria, e la violenza interna ed esterna va libera per le strade delle città e dei paesi».

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