Amos Vogel, fuori formato
Filmmaker L'omaggio al pioniere dei cineclub, alle sue libere associazioni per visioni senza vincoli o schemi
Filmmaker L'omaggio al pioniere dei cineclub, alle sue libere associazioni per visioni senza vincoli o schemi
«Pensai: se io sono interessato a questo tipo di film e non posso vederli, devono esserci altre persone in una città grande come New York che saranno ugualmente interessate. Forse dovrei raccogliere alcuni di questi film e cercare di mostrarli in pubblico». Così Amos Vogel raccontava la semplice intuizione, la scintilla che innescò la straordinaria esperienza di Cinema 16, «il più grande cineclub d’America», che Vogel fondò e gestì insieme alla moglie Marcia e con l’aiuto di Jack Goelman dal 1947 al 1963, riunendo film che all’epoca erano esclusi dagli schermi cinematografici e persone desiderose di vederli, riempiendo sale da migliaia di posti, creando il primo catalogo di distribuzione di film sperimentali e ponendo una pietra angolare per lo sviluppo dell’avanguardia e della cultura cinematografica americana nel dopoguerra.
Quella scintilla racchiude già la parabola di una passione personale che trova senso e verifica nella condivisione e nell’impegno collettivo. Del resto, Amos Vogelbaum, nato a Vienna nel 1921, lì si era formato negli anni Trenta tra gruppi socialisti e sionisti, prima di riparare negli Stati Uniti nel 1938, dopo l’annessione dell’Austria alla Germania nazista. La sua idea iniziale era di trasferirsi da lì in un kibbutz in Palestina, progetto poi abbandonato dopo aver preso le distanze dal sionismo e aver trovato a New York la sua vera vocazione di agitatore culturale, critico, programmatore e distributore: un’attività che, pur con importanti precedenti nell’Europa tra le due guerre (si pensi al Vieux Colombier e allo Studio des Ursulines a Parigi, alla London Film Society o alla Film Liga olandese), conserva tuttora quel fulgore pionieristico che fa di Vogel una sorta di patrono dei curatori cinematografici.
Oltre i limiti
La sua era una pratica eminentemente politica, improntata alla comprensione della complessità della società capitalistica avanzata e alla critica dell’esistente, strategicamente contrapposta alle idee e alle forme del cinema dominante, insofferente verso qualsiasi forma di censura e dedicata all’esplorazione dei limiti, all’espansione degli orizzonti percettivi e culturali. Essere scomodi, interrogare il potere e smascherare i suoi codici, essere «sabbia, non olio, negli ingranaggi del mondo», come recitano i versi di una poesia di Günter Eich che Vogel aveva eletto a credo esistenziale e professionale.
Questi erano i principi che Vogel coltivò anche in seguito, come curatore della sezione cinematografica del Lincoln Center, fondatore e direttore (dal 1963 al 1968) del New York Film Festival, docente presso varie università e autore di uno dei libri di cinema più visivamente e intellettualmente dinamitardi del secolo scorso, Film as a Subversive Art (Random House, 1974; «Cinema coma arte sovversiva», Studio Forma, 1980), in cui attraverso un catalogo globale del cinema, teorizzava la pedagogia sovversiva che aveva sempre ispirato la sua programmazione.
Lo sguardo di Vogel era curioso, lungimirante, entusiasta, attento agli umori del pubblico come determinato a disattendere la semplice prospettiva del suo intrattenimento, per educarlo, stimolarlo, provocarlo. Cinema 16 si definiva un’associazione cinematografica «per lo spettatore adulto», ovvero un’associazione privata (questo anche e soprattutto per aggirare i visti della censura) di cittadini e appassionati desiderosi di allargare la propria nozione del cinema e della società, di confrontarsi con film inattesi, imperfetti, controversi, persino scioccanti, di coltivare insomma uno sguardo capace di accogliere e apprezzare criticamente ogni tipo di materiale cinematografico.
I film che Vogel proponeva, unendo radicalismo di sguardo e oculatezza di gestione, cura minuziosa del materiale grafico e delle note di programma, erano «film che non si possono vedere altrove», ovvero produzioni estranee al circuito commerciale, destinate a settori di nicchia o professionali oppure opere censurate di cui era vietata la proiezione o ancora semplicemente ignorate dal mercato.
Generi e registri disparati, accomunati dalla marginalità al sistema ufficiale e anche dal supporto di registrazione, il 16mm, che i Vogel scelsero come marchio materiale e spirituale di Cinema 16. Un formato «ridotto», ma invero molto più ampio e comprensivo del 35mm impiegato dal cinema ufficiale, un formato con cui erano girati film amatoriali e sperimentali, industriali e didattici, nonché le produzioni della nascente televisione.
Nel montaggio eterogeneo e spregiudicato dei programmi, improntato a uno spirito modernista fatto di shock e collisioni tra materiali, sta la grande intuizione, la lunga influenza e l’attualità dell’approccio di Vogel, che si fondava sui due binari del documentario e del film d’avanguardia, ma comprendeva anche i nuovi autori del cinema moderno come i capolavori del passato, e si allargava alle periferie del cinema utilitario, scientifico e di propaganda, secondo un’orizzontalità che stava già oltre la concezione convenzionale del cinema, in un momento in cui la televisione lanciava appena i suoi vagiti, e che oggi trova forse un nuovo ambiente e una diversa forma di ricezione nell’impulso anarchico e archivistico della rete.
Tre programmi
Nel centenario della nascita di Vogel, «Fuori Formato» rende omaggio alla sua pratica e alla sua visione con tre programmi che cercano di rendere almeno in parte questa varietà eclettica ed esplosiva, selezionando in prevalenza titoli proiettati da Cinema 16, organizzati in tre programmi tematici. Il primo è dedicato all’idea di sovversione e alle radici dada e surrealiste che all’epoca animavano tanta produzione di avanguardia esibita e sostenuta da Cinema 16, di cui vedremo un folle vertice come The Lead Shoes (1949) di Sidney Peterson, ma anche un anarchico esperimento di Pontus Hulten, futuro direttore del Moderna Museet di Stoccolma, un bizzarro studio oculistico dell’Università di Innsbruck, una macchina celibe di Jean Tinguely filmata da Robert Breer, i montaggi di frammenti di film delle origini di Joseph Cornell e l’ultimo notturno capolavoro di Maya Deren.
Il secondo programma, citando al contempo un regista come Dušan Makavejev e uno studioso come Wilhelm Reich, entrambi molto cari a Vogel, è ispirato ai «misteri dell’organismo», all’interesse che Vogel mostrò sempre per i film medici e in particolare per quelli ostetrici, alla sua ricerca dei limiti di accettazione e di infrazione dei tabù visivi che riguardano il sesso, la nascita e la morte. Da un film di nascita di Gunvor Nelson alla soggettiva prenatale di Stan Brakhage, attraverso gli incubi sessuali di Peter Weiss e Kenneth Anger, fino alla lezione di sguardo nel mattatoio di Georges Franju.
L’ultimo programma riporta invece lo sguardo di Vogel in un contesto italiano, con due film sopra le righe, il primo documentario sul tarantismo di Gianfranco Mingozzi e Capricci di Carmelo Bene, animati da visioni estatiche e da un movimento incessante.
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