Amos Oz, l’incipit, ovvero l’indeterminatezza prende forma
Dani Karavan, «Asse maggiore», 1980-in corso
Alias Domenica

Amos Oz, l’incipit, ovvero l’indeterminatezza prende forma

Scrittori israeliani Avventure di Amos Oz davanti alla pagina bianca: degli altri. Tra il mestiere e il piacere, «La storia comincia così», Feltrinelli
Pubblicato un giorno faEdizione del 27 ottobre 2024

Gli incipit di Amos Oz non sono memorabili, né sorprendenti. Rivelano l’urgenza del vissuto, la cura maniacale della forma, il terrore per la pagina bianca che gli appare irrimediabilmente ostile: «A chi non è mai capitato – scrive – un corpo a corpo con la pagina bianca che ti spalanca la sua bocca sdentata sogghignando?».

In cerca di facilitatori o forse anche di modelli, lo scrittore israeliano ha interrogato autori vicini e lontani dando vita a una singolare avventura letteraria, fatta di inizi e rispecchiamenti: La storia comincia così, un libro del 1997, tradotto in inglese in due fortunatissime edizioni (1999 e 2000), ora approda in Italia con la ottima traduzione di Elena Loewenthal (Feltrinelli, pp. 140, € 17,00).

Classici e non
Seguendo le suggestioni del mestiere e del piacere, con una particolare attenzione ai lettori più giovani, Amos Oz sceglie gli inizi di dieci prose, tra racconti e romanzi: sono testi ‘occidentali’, europei, americani, israeliani, pubblicati in genere tra Ottocento e Novecento. Per lo più si tratta di «classici» conosciuti da molti, ma troviamo anche opere poco note che l’autore invita a considerare con particolare attenzione. In una sequenza disordinata e sicuramente originale rilegge Effi Briest di Fontane, Nel fiore degli anni di Agnon, Il naso di Gogol’, Un medico di campagna di Kafka, Il violino dei Rotschild di Chechov, Preliminari di Yizhar, La Storia di Morante, L’autunno del patriarca di Márquez, Nessuno diceva niente di Carver, Una tigre maculata privata e terrificante di Yaakov Shabtai.

L’ordine è sparso, il criterio è sfuggente, poche righe o qualche pagina, analizzati in capitoli di lunghezza e spessore capricciosamente variabili, ma ogni inizio attrae Oz con forza perché rappresenta la stabilizzazione dell’impulso in una prassi che trasforma il caos, anche quello vissuto davanti alla pagina bianca, in «qualcosa di definito», in un gioco comunque armonioso delle facoltà dell’animo; un gioco al quale lo scrittore chiede con insistenza di partecipare, anche a nome di tutti coloro che in qualche raro momento della vita lo avrebbero desiderato. Con lucidità delimita il suo campo: «L’inizio di una storia è quasi sempre un contratto fra chi scrive e chi legge» afferma senza temere smentite; ma i contratti sono mutevoli, spesso originali: possono sancire un patto segreto, a spese dei personaggi; sono a volte trappole che promettono sorprese e spudorate confessioni, «roba da far gelare il sangue nelle vene», che però non giungeranno mai; ci sono poi gli incipit «filosofici» come quello di Anna Karenina che ancora troneggia su borse e magliette senza che nessuno ormai si domandi cosa significhi.

Attratto dalle variabili di questo accordo imperfetto, Oz è disposto ad allargare le dimensioni dell’indagine chiedendo al lettore disponibilità emotiva e offrendo in cambio condivisione, intuizioni e tolleranza. Le trame vengono narrate con la reticenza di un lettore avido e incerto, vi è qualche spiegazione generale sugli obiettivi dell’autore e sulle sue mancanze, una particolare attenzione al senso e all’efficacia del racconto, perché lo scopo finale di questa esercitazione sull’inizio è quello di suscitare un rinnovato interesse per la lettura: «Il nostro obiettivo in veste di lettori» – scrive Oz citando Delitto e castigo – è «piuttosto, godere per quel qualcosa che prende vita fra ciò che è scritto e chi legge, fra le parole che Dostoevskij ha scelto e il portato con cui ognuno di noi giunge alla lettura».

Ma oltre il garbato confronto con questi compagni di penna e al di là del valore di una lettura fatta di lentezza e apparente ingenuità (e con i limiti di letture fatte a volte in traduzione), c’è in Amos Oz la tentazione scostumata di impossessarsi di alcune delle opere che osserva. In genere resiste; si piega spesso al linguaggio di altri e si limita a un rapido viaggio tra le prime pagine con osservazioni pacate che solo a tratti si illuminano di intuizioni, di inaspettate scoperte e spericolate sinestesie. A volte, invece, dimentica di essere un ‘passante’ discreto e bonario che attraversa il suo variegato laboratorio di scrittura e si impadronisce dei testi proiettando su di essi la sua vita e le sue visioni; troviamo allora pagine ribelli e uno stile inconfondibile, in questo volume che sembra confezionato per lettori impigriti e per studenti riluttanti.

Una lettura privata
Manipolata dalle visioni di Oz, La Storia di Elsa Morante diventa così l’esemplare occasione di un dialogo sulla lotta fra la «storia» dei potenti e la «vita quotidiana» delle creature e su una idea di letteratura che coinvolge sia l’immaginazione che un agire potenzialmente libertario. Oz trascura questa volta, come nelle pagine dedicate a uno scrittore israeliano da lui particolarmente amato, Shmuel Yosef Agnon, la ingegneria del romanzo con tutte le sue convenzioni, per proporre una lettura profonda e quasi privata della vicenda di Ida Ramundo stritolata nel conflitto tra le ragioni della vita e quelle della violenza e del potere. «Il contratto che introduce La Storia – scrive Oz – invita il lettore a stare dalla parte giusta della barricata politica che separa i figli della luce dai figli delle tenebre: da una parte la Storia, che brulica di tiranni assetati di guerra, capitalismo divoratore, politica manipolatrice – e dall’altra il distillato di purità e limpidezza: …la giovane donna e il figlio».

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