Amori e dolori letterari nell’età di Cesare
Venere Esquilina (part.), dagli horti Lamiani, scultura ellenistica in marmo pario del I sec. a.C., Roma, Musei Capitolini
Alias Domenica

Amori e dolori letterari nell’età di Cesare

Classici perduti Cicerone disprezzava come «moderni» i coetanei di Catullo che con tecnica alessandrina componevano poemetti mitologici, carmi per nozze e viaggi...
Pubblicato circa un anno faEdizione del 27 agosto 2023

La parola cinis («cenere»), di solito maschile, si usava anche al femminile. Dobbiamo a questa banale questioncina linguistica la conservazione di due frammenti (undici parole in tutto) di un’elegia perduta, citati da un grammatico solo per questa particolarità. Che ci consentono però di entrare nel vivo di aspetti cruciali del contesto della poesia perduta dell’età di Cesare. L’autore è Licinio Calvo. Catullo lo coinvolge in vari suoi carmi come poeta e amico. I posteri assoceranno spesso Catullo e Calvo in una sorta di binomio. A differenza di Catullo, era un nobile in carriera e oratore prestigioso. Come Catullo morì giovane. Come Catullo, attaccò Cesare e Pompeo: l’uno e l’altro sono derisi per l’omosessualità in due distinti frammenti. Ma, come Catullo, intrattenne con Cesare relazioni personali. Come Catullo, scrisse un raffinato poemetto mitologico, almeno un epitalamio, versi d’amore. Restano 21 frammenti: solo due raggiungono i due versi.

Della sua poesia erotica Ovidio dice che «vi rivelava con licentia i suoi amori furtivi, in vari metri». Da Properzio sappiamo che «nel cantare la scomparsa dell’infelice Quintilia confessava» esperienze d’amore. È dal carme per Quintilia che provengono quei due frammenti: «…quando sarò ormai bionda cenere”, in cui Calvo dava voce alla donna che già si pensa morta e: «…ne potrebbe forse godere (gaudeat) la stessa cenere», in cui si chiedeva come poter trasmettere conforto a quella cenere. Grazie a questi frammenti comprendiamo che il carme 95 di Catullo, pure elegiaco, non era solo una consolazione a Calvo per la perdita di Quintilia: era una risposta puntuale alla sua elegia. Instaurava con essa un dialogo letterario, radicato in questa profonda base umana. Catullo scrive: «Se qualcosa, Calvo, può giunger gradito e accetto ai muti sepolcri dal nostro dolore – il rimpianto con cui riandiamo agli antichi amori e piangiamo le amicizie da tempo lasciate – certo non tanto la prematura morte addolora Quintilia, quanto gioisce (gaudet) per il tuo amore». Catullo non scioglie il dubbio di Calvo, non cerca di illuderlo sul fatto che il rimpianto dei vivi possa dar conforto ai defunti, ma gli dice che se anche solo un margine di questa possibilità sussistesse, il piacere provato da Quintilia sarà così forte da superare il dolore che tra tutti è il più acerbo: quello per la morte prematura. Tale è, doveva intendere Calvo, l’intensità con cui egli ha saputo esprimere il suo rimpianto. Al potenziale gaudeat, la cui incertezza era esplicitata da «forse», Catullo risponde con un positivo gaudet, la cui certezza è esplicitata da «certo». Certezza fittizia, forzata, perché molto più che incerta resta la condizione preliminare. Forzatura che è conforto umano per Calvo e, insieme, complimento letterario per come ha saputo esprimere il suo dolore.

Anche altri coetanei di Catullo, alcuni dei quali egli coinvolge, come Calvo, nei suoi carmi, scrissero poemetti mitologici, poesie per nozze, viaggi, pubblicazioni di carmi o altri eventi della cerchia, versi di diffamazione politica, carmi per accompagnare un dono, poesie d’amore. Restano quattro o cinque epigrammi, vari titoli, e un pugno di brevi frammenti. Se per designare questi poeti diciamo «poetae novi» o, in greco «neòteroi» («i moderni») è perché così Cicerone qualificava in tono ironico, quasi spregiativo, dei poeti che si compiacevano di raffinatezze «alla greca», disprezzavano come inelegante Ennio, l’emblema della poesia nazionale, assumevano come bandiera un poeta ellenistico arduo e dotto come Euforione. Cicerone usava queste formule quando Catullo e Calvo già erano morti. Non è dunque chiaro a chi si riferisse di preciso. Certo sapeva di un movimento unitario di poeti che, vantandosi ‘nuovi’ e richiamandosi alla poetica alessandrina, prediligevano generi minori, cura formale, compiacimenti eruditi. E certo, nella loro poesia, non intendevano farsi carico dei temi politici e etici della comunità.

In verità le istanze della poetica alessandrina erano note già ai primi poeti di Roma, nel III secolo a.C., che ne ricavarono insegnamenti tecnici ma, dovendo dare a Roma, in un’età di grande espansione, una letteratura in cui la comunità riconoscesse la sua identità, avevano praticato prevalentemente i generi maggiori, cercando i modelli nella letteratura greca arcaica e classica. Dalla metà del II secolo a.C. cittadini eminenti danno ospitalità a intellettuali greci per farsi supportare nella acquisizione della cultura filosofica, retorica, letteraria utile a qualificare le loro attività pubbliche, e per ingentilire il loro stile di vita. Tra essi vi sono poeti che celebrano in versi greci le imprese dei signori romani e ne accompagnano la vita sociale con eleganti versi d’occasione e poesie erotiche di tenue sentimentalità, secondo un alessandrinismo di maniera. Alcuni nobili cominciano a scrivere essi stessi, in latino, versi leggeri di tipo ellenistico: restano due epigrammi di eros omosessuale, di ricercata fattura, di Lutazio Catulo, politico insigne di fine II e inizi I secolo a.C. e pochi altri simili, leziosi e manierati, forse scritti nel suo ambiente. Una pratica amatoriale di poesia minore secondo questi spiriti è ormai, nell’età di Cesare, diffusa nelle classi alte. È ragione di distinzione, suscita rispetto, purché resti confinata nell’otium, ai margini delle attività proprie del cittadino di alta condizione: la gestione degli interessi della famiglia (res privata) e della comunità (res publica).

Si dilettarono di scrivere versi leggeri figure come l’oratore Ortensio, il sommo giurista Servio Sulpicio Rufo, il cesaricida Bruto, Gaio Memmio, pretore e dedicatario di Lucrezio, Giulio Cesare. Anche qualche donna: la figlia di Ortensio, la sorella del senatore-poeta Cornificio. Lo stesso Cicerone, che pure trattava con fastidio ironico questi ‘nuovi’, aveva scritto da giovane, e dunque ben prima di Catullo, almeno un poemetto mitologico e altra poesia dotta o dilettosa, di cui abbiamo frammenti. Negli anni della fine della repubblica egli probabilmente sentì preminente il bisogno di attestarsi su una ferma difesa della concezione tradizionale della poesia come sostegno ideale dei valori della comunità.

Il libro di Catullo, in cui quasi tutti i carmi brevi non d’amore e anche alcuni dei carmi d’amore sono legati a occasioni della sua cerchia, trasferite dalla quotidianità biografica alla sfera di una raffinata letterarietà, e che include preziosi carmina docta, potrebbe essere letto in continuità con la produzione amatoriale di cui si è detto. In realtà Catullo ha reinterpretato la tradizione alessandrina in modo unico. Ne ha fatto ciò che essa non era mai stata neanche nei poeti greci: la modalità espressiva di una personalità appassionata, che nell’eleganza della forma trasfonde contenuti intensi e ritrova per questa via, pur muovendo da una poetica elitaria, la capacità di presa su ogni lettore, cui trasmette il suo accorato appello ai diritti della vita individuale dei sentimenti e delle passioni, repressi nella morale convenzionale e marginalizzati nella letteratura.

La domanda è: nel gruppo dei ‘nuovi’ c’erano altre voci simili a quella di Catullo, o la sua è stata un’eccezione unica? Catullo, dopo un primo incerto passo in Bitinia, lasciò ogni ambizione di carriera e visse, a quanto si sa, solo di relazioni affettive e di poesia su di esse. Non poesia come accompagnamento dei ritagli di otium, ma dedizione all’otium come il solo spazio per la realizzazione di una vita di valori emotivi e letterari autentici. C’era qualcosa di così rivoluzionario negli altri ‘nuovi’? Non è probabile, già per considerazioni biografiche. Furono, quasi tutti, come Calvo, coinvolti nelle tempeste della civitas. Cinna, politico cesariano, fu ucciso nei tumulti dei funerali di Cesare perché scambiato con un omonimo vicino ai congiurati. Cornificio, nobile, schierato con Cesare e, dopo la sua morte, col senato, raggiunta la pretura, fu ucciso nel 42 mentre governava la provincia d’Africa. Ticida, cavaliere cesariano, fu ucciso dai pompeiani nel 46. Valerio Catone non faceva politica; lavorava come insegnante, e visse a lungo. Difficile pensare che in persone con questo tipo di esperienze si esprimesse, come in Catullo, il senso del valore primario che aspetti anche minimi della vita privata meritano come tema poetico in quanto capaci di coinvolgere radicalmente la persona del poeta e dei suoi lettori. Nulla, nei frammenti rimasti, lo fa pensare.

La sola eccezione sono i frammenti di Calvo per Quintilia: solo in essi, e nel dialogo che instaurano con Catullo, vediamo un episodio della vita intima di un poeta diverso da Catullo entrare in una cerimonialità di rapporti letterari – lamento comunicato agli amici; risposta consolatoria e al tempo stesso complimento per la qualità poetica di quel lamento – mantenendo una coinvolgente tensione emotiva. Il caso è isolato e non basta a ridimensionare l’eccezionalità rivoluzionaria della figura di Catullo. Ma anche nel suo isolamento, questa diversa voce, pur esile nella sua frammentarietà, vale a dare più concretezza e riconoscibilità a quel passaggio da una tradizione di poesia come fine gioco dell’otium a una poesia che è affermazione della piena dignità e valore del sentimento individuale in cui consiste la singolarissima grandezza di Catullo.

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