Amore tossico coi tasselli della memoria letteraria: un poemetto tardoantico
Bronzetto raffigurante Eros che corre, I-II secolo d.C., New York, Metropolitan Museum of Art – Wikimedia Commons
Alias Domenica

Amore tossico coi tasselli della memoria letteraria: un poemetto tardoantico

Riscoperte del tardoantico Ferita, fiamma, consunzione, tormenti. Il paradigma metaforico classico dell’innamoramento in un anonimo poemetto centonario del V secolo: La malattia di Perdicca, da Marsilio
Pubblicato 11 mesi faEdizione del 19 novembre 2023

L’espressione amore tossico è parte di quella «lingua di plastica» piattamente metaforica che riempie la nostra comunicazione di formule ripetitive e svuotate di significato. Nel mondo antico, invece, Cupido è un dio abile a scagliare frecce: Amore diviene quindi, letteralmente toxikós.

Delle conseguenze distruttive delle frecce di Amore è pieno il mito, e spesso questi amori esiziali sono anche amori contro natura: da Edipo a Mirra, da Fedra a Pasifae, non è difficile cogliere il messaggio sotteso al racconto di passioni che, sovvertendo i confini del lecito, finiscono inevitabilmente per sfociare nel tragico, quasi che solo attraverso il dolore si possa ristabilire l’ordine infranto.

Non fa eccezione il protagonista dell’Aegritudo Perdicae, poemetto in 290 esametri, scritto intorno al V secolo da un autore anonimo (forse da identificarsi con il cartaginese Draconzio), di cui Marsilio «Letteratura universale» ha dato alle stampe una nuova traduzione con testo a fronte, curata da Lara Nicolini: La malattia di Perdicca (pp. 163, euro 14,00).

A differenza di Fedra o di Edipo, Perdicca non rappresenta certo un archetipo, ma è piuttosto il prodotto della stratificazione di una serie di luoghi comuni letterari, inanellati senza soluzione di continuità per far progredire il racconto. Perdicca, giovane e senza macchia, diviene bersaglio dell’ira di Venere; la vendetta della dea lo raggiunge mentre si trova in un bosco, ameno come solo i luoghi letterari sanno essere; qui Cupido, apparendogli in sogno con sembianze femminili, «lo trafigge nel petto con la freccia crudele», provocandogli un amore che sarà, inevitabilmente, tossico.

L’anonimo non risparmia nessun paradigma metaforico: l’amore è ferita, è fiamma, è tormento, ed è naturalmente, più di ogni altra cosa e fin dal titolo, malattia. Ben presto, Perdicca scopre che la sua passione ha natura incestuosa, e si vede quindi costretto a reprimerla per non incorrere nel nefas, che è un peccato tanto grave che non se ne può nemmeno parlare: come dichiara lo stesso Perdicca, infatti, fari scelus est, «già parlarne è un’empietà». La psicoanalisi, tuttavia, ci ha mostrato quali siano gli effetti patologici della repressione; a causa di questo dolor nefandus, di questo dolore inconfessabile, Perdicca si ammala di un male di fronte al quale la medicina non può nulla, perché è «una sofferenza dell’animo» (psicosomatica, diremmo oggi).

A ben vedere, quindi, a essere tossico non è l’amore in sé, ma la necessità di tacerlo e reprimerlo; e l’anonimo ne è ben consapevole, tanto che, ricorrendo all’armamentario allegorico tipico della sua epoca, inserisce una psicomachia in piena regola, con le personificazioni di Amor e Pudor che si fronteggiano al capezzale di Perdicca: «da una parte Cupido esorta a tirar fuori le cause segrete della passione, dall’altra Pudore proibisce di dar sfogo alla voce e trattiene la fiamma della passione che già si leva». Pudor ha la meglio e Perdicca, dichiarando a gran voce non fateor!, «non confesserò», soffoca il proprio desiderio e si consuma fino alla morte. Il finale, però, si concede una svolta imprevista che, tra suggestioni sepolcrali ed elementi perturbanti, chiude il poemetto su un’inattesa atmosfera fin de siècle.

Da trito luogo comune letterario, la metafora della malattia d’amore diviene nell’Aegritudo il vero e proprio perno compositivo, e trova la propria ipotiposi in Perdicca, malato afflitto da sintomi tutt’altro che immaginari («le tempie collassarono all’interno… i muscoli, ormai messi a nudo, lasciano supine le braccia scarne… le costole, evidenti tutte una per una, consunta la carne che le ricopre, rivelano quel poco che è l’uomo e quello che la morte di solito nasconde nel segreto del sepolcro»); non manca nemmeno l’intervento di un medico che, ça va sans dire, risponde al nome di Ippocrate.

Nella tecnica compositiva dell’anonimo, non è la storia a guidare la scelta delle immagini, ma sono le immagini, nella loro convenzionalità, a guidare lo sviluppo narrativo, dettandone la direzione e provocando una costante sensazione di déjà vu. Come scrive Nicolini, l’anonimo «non aveva un gran talento, però leggeva molto»: dietro i versi dell’Aegritudo si scorge l’ordito di una ricchissima memoria letteraria, formatasi con la frequentazione intensa dei poeti latini e sedimentatasi attraverso la memorizzazione scolastica, la pratica declamatoria e la tradizione retorica e manualistica, che avevano via via trasformato i simboli del mito in luoghi comuni.

La memoria letteraria diviene quindi un incubatore di linguaggio poetico; tanto a livello di sequenze che di singoli versi, l’anonimo procede combinando tasselli precedenti, con una tecnica che può ricordare un altro prodotto esemplare della cultura tardoantica: i centoni, componimenti integralmente costituiti dalla giustapposizione di segmenti testuali ripresi da autori precedenti, Virgilio in primis. Non sorprende, quindi, che proprio Virgilio, insieme a Ovidio, sia l’autore rispetto al quale il debito dell’Aegritudo è più scoperto: «per ogni tema che si trova ad affrontare l’anonimo sa dove andare a cercare il modo giusto per dirlo».

Per il lettore, aiutato dalle preziose note di commento, diventa dunque un intrigante gioco intellettuale quello di procedere all’inverso, cimentandosi nell’individuare i prestiti, come farebbe un buongustaio con gli ingredienti di un piatto gourmet. Nicolini va ancora oltre, ricostruendo i modelli impiegati dall’anonimo e utilizzandoli per emendare i punti corrotti del testo. Così, le acque sulle quali, al suo arrivo nel boschetto dove verrà colpito da Cupido, Perdicca posa gli occhi, non potranno essere «infime», come tramandato dal codex unicus, ma saranno piuttosto inlimes, «cristalline», proprio come la fonte nella quale si specchia Narciso nelle Metamorfosi di Ovidio.

Come sottolinea Nicolini, l’operazione combinatoria compiuta dall’anonimo non è sempre riuscita, soprattutto quando dal piano delle macrosequenze si passa al prelievo di locuzioni ed emistichi; eppure, parte del fascino dell’opera sta proprio nei limiti di una tecnica compositiva che draga il patrimonio letterario precedente per ripescarne segmenti da assemblare, in modo quasi meccanico, in base alla loro correlazione tematica: l’anonimo tardoantico si comporta in modo non molto diverso dalle intelligenze artificiali, e con le intelligenze artificiali condivide (almeno per ora) goffaggini e inciampi.

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