Amore e musica nel mondo «ordinario» di adulti mai cresciuti
Al cinema «Juliet, Naked» di Jesse Peretz, l’ultimo film nato dall’universo letterario di Nick Hornby. Fra commedia romantica e storia di formazione «tardiva», con Ethan Hawke nei panni di una rockstar
Al cinema «Juliet, Naked» di Jesse Peretz, l’ultimo film nato dall’universo letterario di Nick Hornby. Fra commedia romantica e storia di formazione «tardiva», con Ethan Hawke nei panni di una rockstar
In Alta fedeltà c’era il proprietario di un negozio di vinili con la mania delle Top Five, in About a Boy un trentenne irrisolto che campava di rendita con le royalties di un jingle natalizio di successo composto anni prima dal padre, e ora, in Juliet, Naked, un docente ossessionato dall’indie rock e in particolare dalla figura di Tucker Crowe, musicista di culto, bello e dannato, misteriosamente scomparso dalle scene intorno alla metà degli anni Ottanta.
TRE TITOLI con qualcosa in comune: la musica. E Nick Hornby. Juliet, Naked è l’ultimo film nato dall’universo letterario del romanziere britannico. Quasi un genere a sé, un porto sicuro a cui approdare, un luogo conosciuto, confortevole, rassicurante, magari prevedibile eppure sempre vivace. Un universo abitato da adulti mai veramente cresciuti, persone ordinarie in un mondo ordinario che rifiutano di abbandonare la spensieratezza dell’adolescenza per farsi carico delle responsabilità che comporta l’essere adulti, ma anche costellato di cocciute solitudini destinate poco a poco a sgretolarsi perché «nessun uomo è un’isola» e alla fine vince sempre l’amore. Solo questo, l’amore, nella sua straordinaria banalità, sembra essere l’ingrediente magico in grado di illuminare il quotidiano trascinarsi.
Ad adattare sullo schermo Tutta un’altra musica, romanzo pubblicato nel 2009, è l’americano Jesse Peretz, uno che di alternative rock ne sa qualcosa, bassista e fondatore dei Lemonheads, regista di videoclip musicali con esperienze sia nel cinema che nella televisione e quindi con un piglio sufficientemente «pop» per riuscire ad estendere la gittata del film a un pubblico mainstream mantenendo quel tocco scanzonato che accomuna le storie di Hornby, una leggera grazia che ne permea per osmosi anche le trasposizioni al cinema.
Un po’ rom-com, un po’ coming-of-(middle)age, condensando nell’immaginario il tipico understatement «brit» e la genuinità ruspante «made in USA», Juliet, Naked parte dalla più banale delle situazioni: all’interno di una coppia che procede per inerzia. Annie (Rose Byrne), impiegata al museo in una cittadina di provincia sul mare, soffoca nel lavoro e dentro a improbabili vestitini a fiori un inespresso desiderio di maternità, mentre il suo compagno Duncan (Chris O’Dowd) dedica ogni energia al culto del suo idolo musicale, quasi un terzo incomodo che finirà per materializzarsi in questo garbato triangolo sentimentale.
TUCKER CROWE, troppe relazioni fallite alle spalle ma intenzionato a riscattarsi nel ruolo di padre sul modello Mason Evans Sr. di Boyhood, non può che avere la «coolness» monella e i capelli spettinati di Ethan Hawke, icona consolidata del peterpanismo degli anni Duemila. E il macguffin è la demo acustica di un suo album, Juliet, riemersa all’improvviso da qualche «basement» e subito etichettata come «capolavoro assoluto» sul forum per soli fan gestito in rete da Duncan. La recensione negativa di Annie sul sito fa scoppiare uno psicodramma in famiglia, ma cattura l’attenzione del musicista che, oltreoceano, la contatta via e-mail dando inizio all’inevitabile fitta corrispondenza destinata a finire in incontro.
Insonnia d’amore incontra Notting Hill (e, ovviamente, tutta la filmografia a marchio Hornby da Febbre a 90 in avanti) ascrivendo Juliet, Naked nella migliore tradizione di quelle brillanti commedie sentimentali che tanto bene hanno fatto al cinema tra gli anni Ottanta e Novanta. Con un bel gancio sul presente e senza neppure esaurire la sua portata nel solo discorso amoroso. Anzi, il meglio semmai esce fuori nella relazione tra vita e arte o nella narrazione della vita attraverso l’arte (la musica di Crowe, ma anche la mostra fotografica sull’Estate del ‘64 che Annie sta curando su commissione), con tutte le possibili mistificazioni offerte dalla lente deformante della mitologia, che trasforma la realtà a piacimento e su misura di chi la osserva ed è spesso destinata a infrangersi nel confronto (il famoso crollo del mito). Ma in fondo, come suggerisce Duncan, a chi appartiene l’arte (e quindi il suo significato)? All’artista o al suo ammiratore? A ciascuno la sua verità.
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