Amor Towles, il volto innocente delle strade perdute
L'intervista Parla l’autore di «Lincoln Highway», edito da Neri Pozza. Una piccola favola on the road tra il Nebraska e Manhattan nell’America degli anni Cinquanta. «Un periodo interessante più per ciò che stava per accadere che per quanto avveniva allora. Certo, il Vietnam, ma anche il movimento per i diritti civili e la rivoluzione sessuale». «Racconto la transizione dall’essere bambini e affrontare il mondo attraverso la famiglia, fino a quando se ne plasma uno tutto da soli»
L'intervista Parla l’autore di «Lincoln Highway», edito da Neri Pozza. Una piccola favola on the road tra il Nebraska e Manhattan nell’America degli anni Cinquanta. «Un periodo interessante più per ciò che stava per accadere che per quanto avveniva allora. Certo, il Vietnam, ma anche il movimento per i diritti civili e la rivoluzione sessuale». «Racconto la transizione dall’essere bambini e affrontare il mondo attraverso la famiglia, fino a quando se ne plasma uno tutto da soli»
Emmett, diciott’anni, è appena stato rilasciato da una fattoria-riformatorio del Kansas dopo aver scontato una condanna per omicidio colposo: ha colpito un bullo che aveva offeso lui e il fratellino Billy tra le bancarelle delle fiera del paese che cadendo ha sbattuto la testa su un blocco di pietra. A casa però, a Morgen nel Nebraska, lo attende la più terribile delle accoglienze. Il padre è appena morto di cancro e la banca è pronta a riprendersi la fattoria di famiglia e ogni bene appartenuto al defunto dopo mesi che le rate del mutuo non venivano più saldate.
Solo Billy, otto anni, ha un’idea per come uscire da quella tragica situazione. Nelle pagine della sua bibbia personale, Il compendio degli eroi, degli avventurieri e degli altri intrepidi viaggiatori del professor Abacus Abernathe si è imbattuto nella Lincoln Highway, la prima strada a collegare le due coste degli Stati Uniti fin dalla metà degli anni Dieci e che partendo da Times Square a New York conclude il suo percorso in un parco di San Francisco. È seguendo quella strada a bordo della Studebaker azzurra del 1948 del fratello che, secondo Billy, i due ragazzi potranno raggiungere la California per rintracciare la madre che se n’era andata otto anni prima proprio lungo il medesimo itinerario. L’arrivo di altri due giovani che hanno diviso con Emmett l’esperienza del carcere minorile, Duchessa e Woolly, rispettivamente figlio di un attore di vaudeville e di una ricca famiglia di New York, imparentata J. P. Morgan, finirà però per orientare il viaggio della piccola comitiva di ragazzi non già verso il West ma in direzione della costa atlantica e delle strade della Grande Mela.
Dopo La buona società e Un gentiluomo a Mosca – di cui si è parlato con l’autore sul manifesto del 10 gennaio 2018 -, con Lincoln Highway (Neri Pozza, pp. 634, euro 19, traduzione di Alessandra Maestrini), Amor Towles racconta con i toni di una piccola favola on the road una vicenda intrisa di scoperte e sorprese, dove dei giovani protagonisti – sulla scorta di una lunga tradizione americana che da Huckleberry Finn di Mark Twain, passando per Il buio oltre la siepe di Harper Lee, arriva fino a Stand by Me di Stephen King – ci guidano nell’esplorazione di luoghi, di un’epoca e della loro stessa anima.
I protagonisti del romanzo sono ragazzi costretti dalle circostanze, quando non dalla responsabilità dei padri, a muoversi da soli nella vita. L’intreccio delle loro vicende definisce una sorta di romanzo di formazione generazionale?
Credo proprio di sì. Lincoln Highway racconta la transizione che avviene nella vita di ciascuno quando si passa dall’essere bambini e gli scambi all’interno della propria famiglia – anche quando è disfunzionale – finiscono per influenzare abitudini e comportamenti, prospettive ed emozioni, a quando ci si proietta, fin dalla tarda adolescenza e poi via via con il passare degli anni, in un mondo che si deve invece modellare da soli. Emmett, Duchessa e Woolly sono tutti in procinto di passare dalla struttura familiare in cui sono stati cresciuti ad una realtà di loro creazione, con tutte le sfide e le opportunità, le intuizioni e le illusioni che ciò comporta.
Malgrado il clima della guerra fredda sia all’orizzonte, nel libro si respira un’atmosfera in cui il sogno americano sembra ancora promettente per questi ragazzi: è un’America innocente quella che racconta?
Per gli Stati Uniti, la metà degli anni Cinquanta sono un periodo interessante più per ciò che stava per accadere che per quanto capitava all’epoca. Conclusa la guerra di Corea da qualche mese, nell’anno in cui è ambientato il romanzo, il 1954, l’America era in pace e nel bel mezzo di un boom economico. Ma il coinvolgimento del Paese nella guerra del Vietnam stava per iniziare. Negli Usa la battaglia per la libertà degli afroamericani è antica quanto l’Unione stessa, ma nel ’54 stava per debuttare il moderno movimento per i diritti civili, a seguito della decisione della Corte Suprema sul caso Brown v. Board of Education, che pose fine alla segregazione legale. Allo stesso modo, in quell’anno, la rivoluzione sessuale» stava per muovere i primi passi. Fu nel dicembre del 1953 che Hugh Heffner pubblicò il primo numero di Playboy. Nello stesso periodo fu pubblicato anche il «Rapporto Kinsey» sulla sessualità femminile ed erano in corso ricerche per sviluppare «la pillola». E sempre nel 1954 iniziò l’ascesa della televisione e del rock and roll. Quindi, mentre i grandi cambiamenti culturali che hanno definito l’America dal 1955 al 1970 non dominavano ancora i titoli dei giornali, in quella stagione stavano però già ribollendo appena sotto la superficie delle cose. Per tutti questi motivi il Paese stava vivendo un momento di relativa innocenza ed era ancora pieno di promesse. Un contesto favorevole per esprimere l’innocenza e le promesse a cui guardano i giovani protagonisti.
Ha scelto di dare al romanzo la scansione e i tempi di un conto alla rovescia che vede ineluttabilmente trascorrere i giorni nei quali la storia si compirà. Perché?
Come scrittore, ma ancor prima come lettore, sono molto interessato al ruolo che la struttura e i tempi giocano nella narrazione. Con Lincoln Highway ho immaginato una storia che fosse possibile raccontare in soli dieci giorni. All’inizio il libro era suddiviso in sezioni intitolate «Giorno uno», «Giorno due», «Giorno tre» e così via. Poi mi sono reso conto che non si trattava soltanto di una storia raccontata nel corso di dieci giorni, quanto piuttosto di un conto alla rovescia. E nella cultura americana, il conto alla rovescia viene utilizzato in vari modi. È il mezzo con cui determiniamo la sconfitta del campione dei pesi massimi sul ring. È quello che usiamo per lanciare i razzi. E, naturalmente, è così che finiamo il vecchio anno e iniziamo il nuovo, come del resto fanno tutti. Il motivo principale per cui questa formula si adatta a Lincoln Highway è che è una storia che si sviluppa con una certa urgenza, man mano che le opzioni per i protagonisti si restringono, verso una conclusione inevitabile. Con questo in mente, ho rinominato le sezioni come «Dieci, Nove, Otto, Sette, Sei…».
Nel suo precedente romanzo, «Un gentiluomo a Mosca», un milionario trascorreva quasi 480 pagine rinchiuso in un hotel di lusso, in «Lincoln Highway» un pugno di personaggi percorre migliaia di chilometri tra il Midwest e New York nello spazio di pochi giorni. Cosa lega i due libri?
Quando finisco di scrivere una storia voglio subito prendere un’altra direzione. Ecco perché dopo La buona società che racconta un anno nella vita di una giovane donna che si appresta a lanciarsi in una rapida scalata sociale nella New York degli anni Trenta non vedevo l’ora di scrivere Un gentiluomo a Mosca che descrive tre decenni della vita di un aristocratico russo che ha appena perso tutto e si trova di fatto prigioniero nel Grand Hotel Metropol, nel centro della capitale sovietica, a partire dal 1922. E Lincoln Highway mi ha permesso di virare di nuovo verso un’altra epoca e personaggi diversi. Il motivo per cui inseguo sempre il cambiamento è perché mi costringe a riorganizzare quasi ogni elemento del mio lavoro. Cambiando l’ambientazione, l’epoca e il cast devo anche cambiare la prospettiva, il tono e la poetica della narrazione in modo che siano fedeli ai protagonisti e alle situazioni che si trovano ad affrontare. In sostanza, è come se raccogliessi un mucchio di schegge di vetro dai colori vivaci, ma piuttosto che assemblare questi frammenti in un mosaico con un’immagine fissa, voglio farli cadere sul fondo di un caleidoscopio dove, grazie a un bagliore di luce solare e a un gioco di specchi, mostrano una bellezza intricata che il lettore può riconfigurare con il minimo movimento del suo polso.
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