Sul terreno giacciono memorie. Scorie di un mondo perduto. Echi metallici di valorose imprese. Il terreno è una giostra. Smembrato il mito del Sacro Graal, che più che letterario ridotto a immaginifica proiezione, azzerato il fascino romantico dei tornei, duelli lance dame cavalieri, sparse le membra ormai porzioni di un passato impossibile quanto inutile da rianimare, Lancillotto e Ginevra, icone di quella stagione dell’amor cortese, esaltata dai romanzi del ciclo carolingio, dominata dalla figura di Re Artù e costellata dalle imprese dei paladini della Tavola Rotonda, vagano inquieti, girano in tondo, preda di fanciullesco smarrimento. Avvolto nella penombra di una pensosa oscurità, il Fabbrichino, dove lo spettacolo ha felicemente debuttato, prodotto dal Teatro Metastasio, scritto da Riccardo Favaro e Giovanni Ortoleva (anche regista), è uno spazio mentale, una radura mistica.

UNA VERTIGINE fiabesca che i due amanti, scacciati come Adamo ed Eva dal paradiso delle convenzioni, dei nobili sentimenti, rispetto onore e fedeltà, luttuosamente vestiti, dilaniati dai rimorsi e afflitti dai sensi di colpa, partendo da Chretien de Troyes increspano di parole e sentimenti, un vortice di sussurri e grida, testimoni principi e artefici massimi del fallimento della missione cavalleresca. Uguale fallimento simbolicamente espresso dal vuoto simulacro di una scintillante armatura che giace al centro della scena: un frammento, colta citazione dai cinefili subito avvertita, sfuggito, e qui precipitato, al clangore metafisico e allo scalpitare equino del film diretto nel 1974 da un ascetico Robert Bresson. Leda Kreider (Ginevra) e Edoardo Sorgente (Lancillotto) fornivano ai rispettivi ruoli soffusa energia e appassionata irruenza sulle sonorità di Pietro Guarracino. Ancora domani. Poi dal 15 al Parenti di Milano.