Quest’anno la direzione del Festival Cinemambiente ha deciso di assegnare il Premio La Ghianda, destinato a un autore o autrice che nel corso del proprio percorso letterario e artistico abbia dedicato con passione la scrittura ad un’indagine profonda e personale con l’ambiente, il paesaggio e la natura, alla poetessa e scrittrice Antonella Anedda. Nasce nel 1955 a Roma da una famiglia di origini sarde e corse, studi classici e università all’estero, esordisce a 34 anni e da subito i poeti e la critica si accorgono della sua originalità. Nell’arco di tre decenni pubblica sedici titoli, tra i quali spiccano le opere Residenze invernali, Notti di pace occidentale, Il catalogo della gioia, Isolatria, Historiae e Geografie. Ha ricevuto molti premi quali il Diego Valeri, il Montale, il Frascati, il Viareggio-Repaci, il Pascoli, il Puskin e il Cesare Pavese.

Fin dai suoi esordi nel 1989 ha saputo comporre versi che hanno dimostrato un profondo attaccamento alla “terra”, sia la terra di se stessa, l’intima sospensione dove le parole vengono ostentate, carattere forte e diffuso tra le poetesse contemporanee, sia la terra in quanto opera di una costante crescita ed evoluzione, come gli alberi, le erbe, i paesaggi, i continenti, i boschi. C’è sempre qualcuno che guarda qualcosa, c’è sempre un piccolo spettacolo in atto che noi raggiungiamo grazie alle preziose reti verbali di Antonella Anedda. Ecco come si esprime la critica: «Una capacità davvero notevole di fermare e cristallizzare i sentimenti e le emozioni in architetture formali e rigorose, in arabeschi di oggetti nitidi, lucidissimi, carichi di inquietudini e di aspirazioni esistenziali» (Roberto Galaverni, in Nuovi poeti italiani contemporanei, Guaraldi). «Ciò che ci cattura è la percezione del gesto che porge la parola. Mentre la parola viene lasciata a testimoniare per se stessa, a disporre nel bianco, non della pagina, ma del vuoto che la pagina rappresenta, le poche, nettissime immagini di sofferenza e di affetto» (Gian Mario Villalta, in Il respiro e lo sguardo, BUR). Si poiché tutto questo vociare si sospende in un vuoto, in un pentagramma che possiamo condividere, noi dalla parte dei fortunati lettori e lei dalla parte di chi modella la creta.

Antonella Anedda, come è nata la sua scrittura poetica? Come è arrivata alla poesia come forma di espressione?

Lentamente come i faggi che sonnecchiano a lungo. A lungo ho solo annotato le frasi altrui, i testi con le immagini che mi colpivano. Di tutti i tipi e di autrici e autori diversissimi non solo poeti da Emily Dickinson a Clarice Lispector, da Spinoza a Amos Oz a Kawabata. C’era e c’è di tutto in quei quadernetti. Ad un certo punto tra quelle parole ho intravisto una possibilità di costruzione ulteriore, la possibilità di rendere la realtà davvero reale. Leggevo un testo in cui c’erano una collina e una nuvola e le riconoscevo davvero non grazie a una descrizione ma al modo in cui erano dislocate sulla pagina, per la scelta di un verbo o di un avverbio, perché erano come sono ma leggermente diverse, più vive.

Residenze invernali, Notti di pace occidentale, Il catalogo della gioia, Isolatria, Historiae, Geografie. Già i titoli delle sue opere sono un chiaro riferimento alla terra, alla dimensione terrestre delle sue stanze, talune definite in versi e altre in prosa. Che cosa l’affascina di quello spazio, fisico e mentale, che è la terra?

Tutto. I fossili che non smettono di stupirmi, la meraviglia delle radici, dei tronchi e l’odore della terra che credo di capire perché ho avuto un’infanzia non solo marina ma campagnola. Vengo da una terra come la Sardegna che è un’impronta sulla diversa terra del mare, un grosso piede con i calli dei nuraghi. Sulla terra ci sono tane e campi, lucertole e le linci che si nascondono, tutte le bestie che corrono e strisciano, i gatti e i serpenti che si acciambellano. Sappiamo quanto dovevamo proteggerla questa terra e quanto invece la nostra cecità antropocentrica e la nostra violenza l’abbia distrutta e la stia distruggendo. Il Covid, ora la guerra ma tutto viene da lontano. La terra è un’aiuola ma come dice Dante guardandola è “l’aiuola che ci fa tanto feroci.” Mentre rispondo arrivano le immagini con la strage dei bambini in Texas: armi, profitti, malattie. Cosa dire di un luogo che nega il diritto all’aborto – come fa del resto la Polonia – ma non batte ciglio davanti ad un fucile?

Il tempo passa, modifica, incide. Come opera il tempo nelle sue poesie? È un tempo guardiano, è un tempo vivo che agisce nel corso della sua vita, è un tempo predatore, che consuma?

Mi piacerebbe pensare a un tempo guardiano e vivo, grazie proprio al suo consumarsi. Ad un tempo-albero, con radici che cercano e foglie che si avvicendano, non ad un tempo predatore. Una riflessione diversa riguarda la storia che spesso coincide con una serie organizzata di massacri. Un giorno mia figlia mi ha fatto rileggere un passo delle Historiae di Tacito (I-3): A largo delle coste c’era stato un naufragio di migranti. Avevano appena trovato due cadaveri abbracciati sotto lo scafo di un barcone. Tacito parla delle conseguenze delle guerre civili ma quello che scrive: “Pieno il mare di esuli, gli scogli insanguinati da stragi” può essere letto come un’istantanea del futuro bloccata in un tempo fisso, ghiacciato, agghiacciante. Credo che queste due modalità del tempo attraversino quello che scrivo.

Isolatria: un diario che indaga la dimensione raccolta dell’isola, o meglio in questo caso di un arcipelago satellite della sua isola natale, la Sardegna. Riflettendo sul suo rapporto con questi scogli e questi sguardi di mare, che cosa ha scoperto? Siamo isole tra gli altri uomini o piuttosto siamo ponti?

Non so se siamo ponti o isole tra gli esseri ma l’isola non è così isolata e il ponte può essere fragile. Forse l’arcipelago è una dimensione possibile come spazio mentale e fisico che contempli specie diverse di piante e umani, bestie parlanti e non. La terra come un arcipelago in cui non ci siano solo scogli ma piante, non solo acqua salata ma acqua-dolce, pulita per tutti.