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Aminatou, la ribelle del Sahara

Aminatou, la ribelle del SaharaUn fotogramma dal film di Giancarlo Bocchi «La ribelle del Sahara»

La storia Aminatou Haidar, simbolo della lotta per la liberazione della sua terra e dei prigionieri politici saharawi

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 28 novembre 2020

Aveva nove anni quando i marocchini occuparono il suo paese, il Sahara occidentale. Ancora oggi, Aminatou Haidar, la leader della resistenza nei territori occupati, che chiamano «la Gandhi del Sahara», ha un ricordo indelebile e drammatico di quei giorni. «Ci sono degli eventi che hanno caratterizzato in particolare la mia infanzia e che rimangono incisi nella memoria, come la morte di mio padre. Ha perso la vita quando ci fu l’invasione investito da un camion guidato da un marocchino. A quell’età non capivo la situazione. Avvertivo che fosse successo qualcosa di strano, in particolare in quel periodo c’erano molti camion dei marocchini che loro chiamavano «marcia verde», ma che per noi era la «marcia nera». Dopo quattro anni ho iniziato a capire la vera situazione del popolo saharawi e mi sono resa conto che la morte di mio padre non era stata accidentale».

Verso il Fronte Polisario
Ucciso da un camion a Tan Tan y Guleimín, Il padre Ali era una persona in vista, di una famiglia beduina, uno che lottava, fin dall’occupazione spagnola, per l’indipendenza del popolo saharawi. Durante l’invasione marocchina del Sahara occidentale lo strano incidente mortale al padre di Aminatou non fu l’unico. Dopo la morte del marito, Darya, la madre di Aminatou, si trasferisce con le due figlie e i due figli a El Aaiún, la capitale del Sahara occidentale. A El Aaiún Aminatou si applica intensamente agli studi. Ottenuto il diploma di scuola superiore la madre la manda come premio in vacanza alle Canarie dove conosce casualmente alcuni esponenti del Fronte Polisario di liberazione del Sahara. Dopo quell’incontro Aminatou decide che deve impegnarsi nella lotta contro l’occupazione marocchina. «Nel 1975 il Marocco ha invaso il Sahara occidentale con l’esercito e con la forza. Questa invasione ha causato a noi, al popolo saharawi molte tragedie. Migliaia di saharawiani vivono adesso in esilio a Tindouf che è un territorio algerino. Mentre molti altri sono rimasti nel territorio occupato. Da allora, dal 1975, il popolo saharawi non ha mai smesso di soffrire…».

Le lotte e l’arresto
Nel 1987 maturano definitivamente le sue idee di resistere all’occupazione. « Dopo i dodici anni, avevo iniziato a distribuire dei volantini con slogan a favore dell’indipendenza del Sahara occidentale, insieme ad altri studenti, ma a vent’anni ho deciso di partecipare a una grande manifestazione organizzata da tutti i ceti sociali perché avevano privato il mio popolo di ogni diritto. Ci avevano l’escluso totalmente dalla vita politica e sociale. Non avevamo né il diritto di associazione, né la libertà di espressione. Non avevamo il diritto di spostarci liberamente e neanche di manifestare pacificamente per le strade».

Aminatou Haidar
Qualche giorno dopo la manifestazione, Aminatou viene arrestata e sparisce nel nulla per quattro lunghi anni, in una specie di «Garage Olimpo» del Sahara, il centro di detenzione e tortura dei Servizi segreti marocchini, in pieno centro di El Aaiún, in una ex caserma spagnola vicina al cinema La Dunas. Fino al 1991 subisce il trattamento che i marocchini riservano agli attivisti per l’indipendenza. «La polizia mi ha sottoposto a ogni tipo di tortura. Mi legavano le mani con una corda. Venivo denudata e legata a una tavola o a un banco molto spesso. Mi mettevano dei prodotti chimici urticanti in bocca, nel naso e negli occhi e mi percuotevano continuamente con bastonate. Poi c’erano le scariche elettriche. Perdevo i sensi tutte le volte».

Aminatou viene detenuta senza alcun processo, senza alcuna accusa precisa. «Per tutti e quattro gli anni avevo gli occhi bendati notte e giorno. Volevano farmi perdere la nozione del tempo e dello spazio. Ho trascorso quegli anni buttata in un angolo totalmente isolata dal mondo esterno. La mia famiglia ignorava totalmente dove mi trovassi. Mia madre pensava fossi morta, piangeva giorno e notte, soffriva troppo… è stata anche lei una vittima». Durante la detenzione Aminatou si ammala gravemente di epilessia, gastrite e reumatismi. Ha il corpo paralizzato. I poliziotti si rifiutano di chiamare i medici.

«Quando quella muore avvisateci che portiamo via il cadavere» rispondono agli altri detenuti che chiedono di chiamare i medici. Malgrado le malattie, Aminatou resiste mentre alcuni sui compagni di detenzione perdono la vita per l’ assenza di cure mediche adeguate. Nel 1991 viene finalmente liberata. Dopo lunghe cure guarisce. Nel 1992 si sposa con un compagno, El Kassimi Mohamed Ali, ha una figlia, Hayat, e un figlio, Mohamed. Riprende gli studi, si laurea brillantemente in letteratura moderna. La sua militanza politica mette però in crisi il matrimonio. Lei e il marito vengono continuamente pedinati, convocati dalla polizia. Nel 1999 non ha alternative e divorzia da Mohamed Ali.

Prigione nera
Nel 2005, partecipa nuovamente a una manifestazione organizzata dalle famiglie delle persone sparite e dei prigionieri di coscienza saharawi che volevano rivendicare la liberazione dei loro genitori o conoscere la sorte delle persone sparite. «A un certo punto la polizia intervenne contro di noi in modo violento e repressivo. Nonostante perda ancora sangue e sia ferita gravemente Aminatou viene arrestata in ospedale e rinchiusa in uno dei luoghi più tristemente noti del Sahara: la prigione Nera di El Aaiún. «Era come l’inferno. La situazione lì dentro non si può immaginare… È indescrivibile. I detenuti in prigione subiscono torture continue. Il nostro pane quotidiano erano gli insulti, i manganelli. Non potevamo dormire. Delle volte trascorrevamo tutta la notte su un piede o seduti sulle ginocchia… Ma la cosa più grave e pericolosa delle torture per noi, noi donne saharawi che siamo molto rispettate dalla nostra gente, erano le minacce di stupro».

La voce resistente
Rilasciata dopo sette mesi per il pressante intervento internazionale sulle autorità marocchine, Aminatou non abbandona però la lotta per il suo popolo. Anzi la intensifica. Viaggia all’estero per portare la voce della resistenza saharawi. Di ritorno da un viaggio all’estero, la polizia marocchina dell’aeroporto di El Aaiún le sequestra il passaporto, la interroga per ore e la deporta nelle Canarie dove mette in atto uno sciopero della fame per 32 giorni. Aminatou vuole tornare nel suo paese. È decisa a lottare fino alla fine. Anche se debilitata dai postumi delle torture subite in carcere continua nello sciopero della fame e le autorità sono costrette a ricoverarla in ospedale. Intervengono in favore di Aminatou uomini di cultura e politici di tutto il mondo, anche il premio Nobel José Samarago che va a trovarla all’aeroporto di Lanzarote. Riceve attestati di solidarietà dal premio Nobel argentino Adolfo Pérez Esquivel, dai registi britannici Ken Loach e Paul Laverty, dallo scrittore Eduardo Galeano, dall’attore Javier Bardem, dal premio Nobel Rigoberta Menchù, dal musicista Brian Eno.

Per il governo marocchino è una sconfitta disastrosa. Deve concedere a Aminatou di tornare a El Aaiún. Rientrata nei territori occupati, per prima cosa rivede i figli «Anche loro l’hanno pagata a caro prezzo, dopo il mio ritorno hanno vissuto un mese sotto assedio. Con la polizia che circondava la casa…». La polizia continua a molestarla, ma non può arrestarla sapendo che la reazione internazionale sarebbe gigantesca. I marocchini infieriscono anche contro i figli di Aminatou. Nel 2011 Mohamed viene picchiato dalla polizia riportando una disabilità permanente. L’anno dopo entrambi i figli vengono aggrediti su un bus mentre stanno viaggiando da Agadir a El Aaiún.

Riconosciuta internazionalmente come la leader della resistenza pacifica all’occupazione marocchina, ha lottato a lungo in questi anni perché si conoscesse la sorte dei 500 desaparecidos saharawi scomparsi da anni nelle carceri e nei centri di tortura marocchini. Ha lottato a lungo anche per ottenere il referendum per l’autodeterminazione che l’ONU ha richiesto al Governo marocchino ormai da molti anni. Aminatou Haidar è ancora fiduciosa che il suo paese possa venire liberato dal giogo marocchino. «Questa occupazione del nostro territorio è una malattia e per curare la malattia bisogna prima liberarsi dell’occupazione perché la febbre non si cura, ma si curano i motivi».

Appendice: Il Sahara occidentale, una guerra infinita
Nel Sahara occidentale il 13 novembre è stato rotto il cessate il fuoco tra l’esercito marocchino e il Fronte Polisario che durava dal 1991. Dopo che l’esercito marocchino, violando la tregua, aveva lanciato un’operazione militare contro dei civili dei territori liberi, nella zona cuscinetto in prossimità della città di Guerguerat al confine con la Mauritania, le forze militari del Fronte Polisario sono intervenute respingendo l’attacco. L’aggressione militare marocchina è stata considerata come la liquidazione definitiva del cessate il fuoco del 1991. Come risposta all’aggressione i militari del Polisario hanno lanciato dei razzi sulle fortificazioni marocchine lungo il muro di sabbia e sassi, lungo 2700 chilometri, costruito nel 1987 dagli occupati per dividere il Sahara occidentale, la patria del popolo saharawi. L’esercito marocchino ha risposto ai razzi del Polisario infierendo su dei poveri beduini, costretti a vivere nei territori occupati, deportandoli. Il 20 novembre ha pure fucilato 102 cammelli, l’unica ricchezza dei nomadi del deserto. Le responsabilità dell’inizio di una nuova guerra vanno ricercate nei giochi diplomatici dei marocchini, che appoggiati dai francesi, da molti anni si rifiutano di ottemperare a una risoluzione delle Nazioni Unite per indire un referendum per l’autodeterminazione delle popolazioni del Sahara occidentale. I marocchini, dopo l’aggressione del 13 novembre, dovrebbero temere fortemente una seconda guerra con il Fronte Polisario che, dal 1975 al 1991, vinse quasi tutte le battaglie del deserto catturando migliaia di marocchini e infliggendo perdite al nemico di decine di migliaia di soldati. Il popolo saharawi, anche se circondato da paesi con estesi fuochi islamisti, ha dimostrato di essere refrattario ai richiami della Jihad.

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