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Amiel, il paesaggio come stato dell’anima

Divano Riflessioni sui «Frammenti di diario intimo» del professore di estetica e di filosofia dell’Accademia Ginevrina

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 5 luglio 2019

«Un paesaggio qualsiasi è uno stato dell’anima, e chi legge nell’uno e nell’altra è meravigliato di trovare la similitudine di ogni particolare». Così nel suo diario, alla data del 31 ottobre 1852, Henri-Frédéric Amiel (1821-1881). Quando, per impulso della amica Fanny Mercier, una scelta delle sedicimila pagine stese giorno per giorno, con diligenza, per trentaquattro anni dal riservato professore di estetica e di filosofia dell’Accademia Ginevrina, viene pubblicata postuma, nel 1883, con il titolo di Fragments d’un Journal Intime curata da Edmond Scherer, critico del parigino Temps, l’interesse che suscita è grande e rapidamente si diffonde in Europa e in America.

Subito in Francia ne scrivono Elme Caro, Ernest Renan, Paul Bourget e Ferdinand Brunetière. Lev Tolstoj, nel 1890, dichiara la sua ammirazione per Amiel nella premessa alla traduzione russa. In particolare Bourget rileva con acutezza come Amiel abbia «creato una prosa composita e semi barbara destinata a notare alcune sfumature de l’anima d’una straordinaria complicazione».

Le sfumature (le vaghezze, le evanescenze; e l’indefinito; e quanto svanisce e si dissolve) nella loro straordinaria complicazione (intralcio, intrico, scabrosità, viluppo. E, al contempo, cambiamento e mutazione e trasformazione) affiorano in Amiel e lo vincolano. Si propone di decantarle, di raffinarle. Ne indaga le celate alchimie e ne da un referto puntuale. Nota il 2 dicembre 1851: «Fa come la pianta, proteggi con l’oscurità tutto ciò che germina in te, pensiero o sentimento, e non produrlo alla luce che quando è già formato. Ogni concezione dev’essere avvolta nel triplice velo del pudore, del silenzio e dell’ombra». Così Amiel si ausculta e redige i margini dell’anima dell’uomo contemporaneo. Ne misura le gradazioni, le gamme impercettibili che ne determinano i toni. E ne constata la stabilità conseguita nel perenne mutamento.

Così Amiel rispecchia lo stato dell’animo suo nel paesaggio se, scrive, «Dauer im Wechsel, la ‘persistenza nella mobilità’, questo titolo di una poesia di Goethe è la parola d’ordine della natura». E dice: «Io sono per me stesso lo spazio immobile, in cui ruotano il mio sole e le mie stelle».

Mattino del 22 maggio 1879: «Tempo magnifico e delizioso. Leggerezza dell’essere. Gaiezza all’esterno e all’interno. Luce carezzevole, blu limpido dell’aria, cinguettio di uccelli; non uno, fino ai suoni più lontani, che non abbia un qualcosa di giovane e di primaverile». Scrive seduto nel portico della sua casa e, guardandosi d’attorno, nota che «il mantello dell’edera è rinverdito, il castagno è rivestito tutto del suo fogliame, i lillà di Persia, accanto alla piccola fontana, rosseggiano e vanno a fiorire». Poi rivolge lo sguardo lontano, «oltre gli alberi di Saint-Antoine», fino al monte Salève e fino alle creste dei Voirons, «oltre la collina di Cologny».

Amiel passa dalla notazione pittoresca, i colori dei fiori e delle piante, alla contemplazione de «la cime/du Salève aux flancs azurés», come la cantava cinquant’anni prima Alphonse de Lamartine. Lo tiene la presenza del contorno alpino, quello medesimo che nell’anno 1444 Konrad Witz delinea nella sua esatta configurazione a far da sfondo nella tavola de La pesca miracolosa accolta nel Duomo di Ginevra. Vi si osservano, scanditi in successione, i profili di quei medesimi monti: sulla sinistra, i Voirons, il monte Môle al centro e, sulla destra, il primo arco del dorso settentrionale del Petit Salève. Essi son raffigurati a cingere, in lontananza, le acque del lago ove Cristo, secondo il racconto di Luca e di Giovanni, opera il suo miracolo. E se allora lo scenario fu o il lago di Genezaret (Lc 5, 1) o quello di Tiberiade (Io 21,1), è sulle rive del lago di Ginevra (le «ritrae, ha scritto Kenneth Clark, con la minuzia di un preraffaellita») che Witz ambienta le narrazioni evangeliche.

E Amiel: «Ho salutato con emozione e trasporto le montagne, donde mi veniva questo sentimento di forza e di purezza, una sfera più eterea dell’anima. Mille sensazioni, analogie e pensieri mi hanno assalito. Vivevo oggettivamente e soggettivamente. La vista si trasformava in visione, senza traccia di allucinazione, e il paesaggio era il mio maestro, il mio Virgilio».

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