Una studentessa, bianca, in procinto di piangere, contesta l’uso di una parola scritta sulla lavagna. Appartiene a un libro di Flannery O’Connor che la classe sta analizzando – «Non ne vedo il motivo. Mi mette a disagio. È offensiva». «Con tutto il rispetto, Britney, se io ho superato il disagio puoi farlo anche tu», le risponde vagamente spazientito il professore di letteratura, afroamericano. La scena apre l’esordio alla regia di Cord Jefferson, American Fiction, adattato dal libro di Percival Everett Erasure (2001) e uscito da poco nelle sale statunitensi.

LA PAROLA dello scandalo è «negro». Alla fine dello scambio, la ragazza abbandona l’aula semi-sconvolta; e il professore – Thelonious «Monk» Ellison (Jeffrey Wright) – viene convocato dalla direzione del college californiano, che lo mette «in pausa» (l’eufemismo del momento per indicare lo stadio prima della «cancellazione»). Per via delle proteste degli studenti e dello spirito sarcastico che lui dimostra nei confronti del nuovo regime politically correct impresso dalla leadership della facoltà, composta interamente di bianchi, come lo è anche quasi tutto il corpo studentesco.

Erudito e introverso, Monk viene da una famiglia colta della middle class di Boston. Ha scritto romanzi seri, degni di nota, ma da qualche anno nessuno dei suoi manoscritti trova un editore – vogliono un libro Black, gli dice l’agente, afroamericano anche lui. Quindi – è sottinteso – quartieri degradati, droga, crimine, ragazze madri e prosa da Neanderthal. Come quella dell’ultimo best seller di Sintara Golden (Issa Rae), We’s Lives in da Ghetto. Disgustato, Monk decide di vendicarsi scrivendo un libro nella stessa vena, solo per finta.

Se la premessa satirica del romanzo di Everett e, in chiave addolcita, del film di Jefferson non risulta ovvia, o offensiva, è in gran parte merito di Wright, un grande attore spesso sottovalutato. Il volto di Monk riflette, con delicatezza quasi impercettibile, una varietà di emozioni che spaziano tra humor, incredulità, paradosso, rabbia, vulnerabilità e soddisfazione. Recatosi a Boston per una fiera libraria, lo scrittore vi rimane inaspettatamente bloccato quando si trova a dover accudire la malattia di sua madre. Così, tra la grande casa dove è cresciuto e il cottage sulla spiaggia (il film tratteggia con grazia il quadro famigliare di borghesia nera benestante, accentuando ancora di più il contrasto con gli stereotipi riflessi dal mercato letterario), Monk compone la sua versione di un romanzo «alla Golden» – gioventù scellerata, madri abbandonate, padri inadempienti, su colonna sonora di sirene della polizia e infarcito di errori di ortografia, a partire dal titolo, My Pafology.

Il tutto è così iperbolico che il suo agente non vuole nemmeno mandare il manoscritto, firmato sotto lo pseudonimo Stagg R. Leigh, alle case editrici, per completare lo scherzo. Ma la provocazione cade nel nulla, quando gli editors avidi di letteratura dal ghetto, si disputano il libro/truffa. Stagg sarà un fenomeno letterario, la serie Tv è dietro la porta. L’escalation, che da qui si fa sempre più paradossale, è molto divertente. Libro e film la collocano sullo sfondo della ritrovata vita famigliare di Monk, che se ne era andato senza mai guardarsi indietro. Ma, a dispetto del tocco intelligente di melodramma (che fa però un po’ Lifetime Tv), American Fiction ha i suoi momenti migliori quando affonda i denti nella satira, prendendo di mira la superiorità morale di cui si ammanta l’attuale establishment liberal bianco, ma anche con le frecciate verso le culture all’interno della comunità Black.

EX GIORNALISTA, ex direttore del sito Gawker e noto autore televisivo, Jefferson ha una penna molto più affilata di quanto sia il suo occhio. E, quando non è esplicitamente commedia, American Fiction rischia a tratti di finire intrappolato in un suo stesso sistema di cliché (il fantasma del padre donnaiolo, la cameriera fedele dall’infanzia, il fratello gay, la vicina comprensiva ma emancipata, il benevolo capo della polizia locale). Insieme ai dialoghi appuntiti (il doppiaggio sarà arduo), all’idea originale di partenza e a Wright, il film è ancorato a un gruppo di attori così raffinati (Sterling K. Brown, Tracee Ellis Ross, Leslie Uggams, Keith David) che il loro gusto per il racconto surreale che stanno mettendo in scena è anche il nostro.

Arrivato quasi in coda alle grandi uscite cinematografiche di Natale e prodotto da MGM (oggi proprietà di Amazon), American Fiction è uno dei primi – ma non il solo, la serie tv The Curse, prodotta da Benny Safdie e dal comico canadese Nathan Fielder è un altro – sintomo di un principio di resistenza (superamento politico e ironico?) all’intransigenza cultural/ morale che oggi, specialmente negli Stati uniti, intrappola i movimenti per la giustizia sociale, neutralizzandone spesso l’efficacia. Accolto da recensioni favorevoli, American Fiction è ancora un’incognita al botteghino, e alla potenziale offerta dalla piattaforma pubblicitaria della corsa agli Oscar. Speriamo che non risulti troppo in anticipo con i tempi.