«Ambiente familiare in mezzo alla natura»: turismo nelle colonie
Protesta palestinese Airbnb che mette in collegamento i viaggiatori con quanti mettono a disposizione appartamenti e camere da letto, propone alloggi a poche decine di minuti da Tel Aviv o da Gerusalemme negli insediamenti ebraici costruiti illegalmente nella Cisgiordania occupata
Protesta palestinese Airbnb che mette in collegamento i viaggiatori con quanti mettono a disposizione appartamenti e camere da letto, propone alloggi a poche decine di minuti da Tel Aviv o da Gerusalemme negli insediamenti ebraici costruiti illegalmente nella Cisgiordania occupata
Sorrideva l’altro giorno Avital Kotzer Adari, dell’Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo, mentre snocciolava i dati dell’affluenza dei turisti stranieri nel suo paese. «Il 2015 si è chiuso con 3,1 milioni di visitatori da tutto il mondo, di cui 2,8 milioni turisti. Per quanto riguarda quelli provenienti dall’Italia, che è il sesto Paese al mondo per utenza, abbiamo avuto un +91 mila visitatori, di cui 84 mila turisti», ha riferito presentando le iniziative rivolte ai pellegrini nell’Anno del Giubileo della Misericordia. Un interrogativo è sorto spontaneo ascoltando quelle cifre: quanti di quei turisti, anche italiani, hanno trovato alloggio nelle colonie israeliane in Cisgiordania? Già perchè comincia a dare i suoi frutti la campagna per la normalizzazione degli insediamenti colonici che i governi israeliani, non solo gli ultimi tre presieduti da Benyamin Netanhyahu, portano avanti da anni. Le agenzie locali promuovono sempre più spesso pacchetti turistici nelle colonie dove «apprezzare la natura e bere buon vino, vivere in un’atmosfera pastorale e in un ambiente familiare». Una delle più gettonate è Psagot, tra Gerusalemme e Ramallah, ma sono sempre di più gli insediamenti israeliani in Cisgiordania che si rendono disponibili per i fine settimana. I tour operator locali, rivolgendosi ai cittadini stranieri, sorvolano sul fatto che quelle «comunità» in realtà sono colonie costruite in violazione del diritto internazionale in un territorio che è stato occupato militarmente e dove gli abitanti palestinesi intendono proclamare il loro Stato indipendente. In scia si sono inserite alcune agenzie internazionali, non interessate alla politica e al diritto e desiderose solo di realizzare buoni profitti.
Si è scoperto qualche giorno fa che il ben noto sito internazionale Airbnb che mette in collegamento turisti e viaggiatori con quanti vogliano mettere a loro disposizione appartamenti e camere da letto – la sua app per smartphone viene scaricata in ogni parte del mondo – propone case immerse nella natura, a poche decine di minuti da Tel Aviv o da Gerusalemme, a prezzi molto convenienti, anche nelle colonie ebraiche. Lo stesso vale per le Alture del Golan, un territorio siriano sempre occupato da Israele. Un responsabile di Airbnb non ha confermato ma neppure smentito: «Seguiamo le leggi e le disposizioni relative a dove noi possiamo fare affari e ci preoccupiano di indagare quando qualcuno manifesta preoccupazioni riguardo determinate inserzioni», ha dichiarato a un quotidiano locale.
Un sito d’informazione della sinistra israeliana, Siha Mekomit, spiega in una sua inchiesta che a turisti stranieri ignari è proposto di pernottare in colonie ebraiche senza chiarire che quelle località non sono in Israele bensì nei Territori palestinesi occupati. Un po’ come avviene con le etichette “Made in Israel” visibili sulle merci prodotte negli insediamenti colonici, in violazione delle norme che regolano il commercio internazionale. Siha Mekomit ha anche riferito la vicenda di alcuni coloni che hanno respinto la prenotazione di un statunitense di origine palestinese, promettendo che «In un futuro più tranquillo saremo felici di ospitarla».
È difficile immaginare che le proteste possano indurre Airbnb a spiegare in modo accurato che certe offerte arrivano da un territorio occupato militarmente. Tutto ciò mentre le città e località turistiche palestinesi, a cominciare da Betlemme, soffrono le conseguenze dell’occupazione, della costruzione del Muro di separazione e dell’espansione delle colonie. In questo contesto emerge una inchiesta pubblicata di recente dai ricercatori del centro Shabaka – Nur Arafeh Samia al Botmeh e Leila Farsakh – che vuole dimostrare l’impatto che la colonizzazione ha avuto sull’economia palestinese sottraendo alla popolazione importanti risorse naturali, a cominciare dall’acqua (599.901 coloni utilizzano sei volte più acqua che tutta la popolazione palestinese della Cisgiordania, composta da 2.86 milioni di abitanti) e creando una massiccia disoccupazione. I ricercatori di Shabaka sottolineano anche la condizione di quei lavoratori palestinesi che sono stati obbligati a guadagnarsi da vivere proprio nelle colonie e l’appropriazione da parte di Israele di luoghi turistici e archeologici assieme allo sfruttamento di cave, miniere e risorse del Mar Morto.
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