Attraversando la storia della musica occidentale il termine «notturno» ha intitolato vari tipi di composizione, dai brani a più voci di inizio Ottocento alle invenzioni pianistiche di Chopin. Mancano all’appello chiare riprese all’interno del canone pop contemporaneo, a meno di non volerle individuare in certi esperimenti come quest’ultimo lavoro di Moby, Always Centered At Night.

NOTTURNA, in effetti, è l’ispirazione; notturno è anche il colore di fondo sin dal pianoforte che apre l’album e che sembra richiamare, più che Chopin, una Musical Box ceduta da Tony Banks a Thom Yorke. «May the shadows leave us be at night», canta tremolante serpentwithfeet, la prime delle tredici voci cui è affidato il primo piano.

Perché di Moby si può dire che più invecchia più fa il regista, in senso artistico — per come dirige il cast di interpreti — e anche calcistico, per quanto arretra il proprio raggio d’azione fino a simulare un’assenza dal campo. Eppure c’è, ed è difficile dire se sia la sua produzione a mettersi al servizio dell’ospite o viceversa; il fatto che egli stesso, alla vigilia dell’uscita, abbia sottolineato l’importanza della dimensione collaborativa, rende questi incontri molto più di un feat.

A leggere la rosa degli invitati viene da sottolineare i nomi di Gaidaa, artista sudanese emigrata in Olanda, Aynzli Jones, giamaicana residente a Londra e J. P. Bimeni, anch’egli londinese d’adozione rifugiato dal Burundi: attraverso la vetrina allestita da Moby il loro personale è artistico e politico allo stesso tempo. Particolarmente pregnante, poi, la presenza di Benjamin Zephaniah, poeta, musicista e attivista britannico morto nel 2023: Where Is Your Pride?, inno alla compassione, ne onora la memoria declinando anche la sua voce in senso politico.

Moby foto di Lindsay Hicks
Moby, foto di Lindsay Hicks

Dal punto di vista stilistico un album così coniugato al plurale non potrebbe essere più vario. Dopo l’eterea apertura di On Air, la linea di basso di Dark Days imprime una svolta groove a cui aderiscono soprattutto Should Sleep e Fall Back. Altrove, il drum’n’bass techno la fa da padrone in Medusa, la latin house caratterizza Feelings Come Undone, il desert rock viene rivisitato in Sweet Moon, mentre le percussioni personalizzano l’organico di Wild Flame e nella stessa Fall Back. Alla fine, dopo aver coverizzato i Cream di We’re Going Wrong scambiandoli con i Massive Attack, sembra la cosa più normale chiudere il disco con la jazz ballad Ache For.

MA ASCOLTANDO tutto a distanza, l’orizzonte sonoro mostra un’anima ancora elettronica, diventata nel frattempo più calda e più vintage. Un omaggio reso esplicito dallo stesso Moby «alla musica underground e alle etichette che mi hanno influenzato nel corso degli anni».
Tra lui e il campo pop contemporaneo, però, lo scambio di influenze è quantomeno paritario e il 25° anniversario di Play — per il quale l’artista statunitense tornerà in tour devolvendo i profitti alle organizzazioni per i diritti degli animali — è solo uno dei molti modi possibili di misurarne l’impatto.