Cultura

Alvisi e Kirimoto, architettura sostenibile e slow

Alvisi e Kirimoto, architettura sostenibile e slowJunko Kirimoto e Massimo Alvisi nel loro studio

Scaffale In un libro edito da The Plan, il bilancio di vent'anni di lavoro dello studio, tra metodo «sartoriale» e rispetto per la natura

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 2 dicembre 2023

Dopo vent’anni lo studio Alvisi Kirimoto di Massimo Alvisi e Junko Kirimoto fa un primo bilancio con un volume (The Plan, pp. 256, euro 29) che non è solo l’elenco dei progetti realizzati, ma anche l’occasione per illustrare il metodo seguito e ciò che li ha ispirati e guidati nelle loro scelte formali e stilistiche.
L’intenzione è di spiegare quella che i due architetti definiscono slow architecture: un’architettura dalla geometria semplice, composta di elementi essenziali, frugale, ma dal contenuto sapiente nelle relazioni con il contesto e il paesaggio. «Il nostro obiettivo è lavorare con l’ambiente per quello che è – spiega Alvisi a Philip Jodidio nella conversazione in apertura del libro – pensiamo alla natura come potremmo pensare alla periferia di una città e cerchiamo di coinvolgere le persone che hanno a che fare con un edificio».

L’ORIENTAMENTO di Alvisi e Kirimoto è costruire spazi di relazione in armonia con il paesaggio e con quella qualità che deve soddisfare i bisogni di chi li vive. Operano sulla scorta di ciò che insegna la storia, in particolare, quella «ammirata davvero» del passato, da Raffaello a Palladio, misurata con le conoscenze ed esperienze professionali, acquisite all’inizio per entrambi nello studio di Massimiliano Fuksas, dove si sono conosciuti nel 1994, e in seguito per Alvisi in quello di Renzo Piano. I progetti, ordinati cronologicamente e raccolti intorno ai temi del lavoro, della storia e della natura mirano tutti all’«unicità» o all’esemplarità, già per buona parte determinata dalla diversità dei committenti, di programmi e ambienti. Ne deriva un elevato livello di sperimentazione rivolta a un’architettura sostenibile per durata, economicità e carattere: in altri termini una dimensione riflessiva e poetica della ricerca architettonica che Alvisi e Kirimoto chiamano «approccio sartoriale alla progettazione».

SE NE HA LA PROVA nelle Cantine Podernuovo a Palazzone (Siena, 2013), generate da quattro setti in cemento paralleli che spuntando come propaggini artificiali dalle colline che sembrano provenire dai profondi strati geologici del terreno. Si riscontra nell’Accademia della Musica di Camerino (2020) dove un rivestimento inclinato di pannelli di alluminio bianchi e traforati mette l’edificio in «dialogo con le nuvole». Accade nel Complesso industriale Incà a Barletta (2010) che smentisce l’assunto, attraverso un’accorta combinazione degli elementi prefabbricati, che non possa essere scardinata la monotona realtà di un polo produttivo configurandovi valori di «microurbanità».

UN BUON NUMERO di progetti di Alvisi e Kirimoto riguarda l’abitare tra recupero di edifici esistenti e nuove costruzioni, ville unifamiliari e alloggi in edilizia residenziale: il risultato è dato da una definizione calibrata degli spazi e in un oculato uso dei materiali, tra ripresa di tecniche antiche e inserti di elementi contemporanei, tali da considerarli degli interventi ben riusciti di interior design.
Il loro vertice, per funzionalità e gusto, si ritrova negli Uffici direzionali a Chicago (2018), anche se è nell’edilizia residenziale che Alvisi e Kirimoto danno un contributo speciale. È il caso a Barletta del blocco a ferro di cavallo denominato Viale Giulini Affordable Housing (2020).
Con minimi accorgimenti quali il taglio diagonale alla base dell’edificio che amplia il marciapiede, le logge sulla facciata appese che offrono maggiore superficie agli alloggi, lo spazio della corte accessibile dall’esterno, ma soprattutto la bassa densità della tipologia, si avvalora la tesi che le periferie richiedono altri modelli di riferimento, ma soprattutto spazi pubblici.
Per questi potrebbero essere d’esempio i loro teatri realizzati a Napoli (Teatro dell’Accademia di Belle Arti, 2010) o a Corato (Teatro Comunale, 2012), oppure per inventiva lo spazio allestito a Milano per l’esposizione di Emilio Vedova a Palazzo Reale o la Piazza Faber a Tempio Pausania.

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