Nel romanzo che inaugura il cosiddetto Ciclo della Rivoluzione messicana, Quelli di sotto, Mariano Azuela racconta l’incontro tra il «fanfarone» Luis Cervantes e il giovane guerrigliero Alberto Solis, che, deluso dal processo rivoluzionario e scettico sui suoi esiti, spiega all’interlocutore le ragioni della sua amarezza ricorrendo alle parole del poeta spagnolo Juan Ramón Jiménez: «Mi ero immaginato un prato fiorito in fondo alla strada… E ho trovato un pantano». Quando, l’8 novembre 1519, Hernán Cortés e i suoi compagni d’arme entrano per la prima volta a Tenoxtitlan – o Città del Messico, come l’avrebbero chiamata gli spagnoli –, i fiori rivestono il viale di Iztapalapa che attraversa la laguna, ornano l’arco d’ingresso al cuore dell’impero e ricoprono gli isolotti circostanti, dove si avviluppano alle piante aromatiche, sconfinando nelle piantagioni di pomodori magici e di peperoncini. Ci si addentra così, circondati da generosi scenari in cui l’elemento vegetale concorre a sottolineare la magnificenza di una realtà in cui la violenza e la grazia coesistono, nelle pagine di Il sogno, di Álvaro Enrigue (traduzione di Pino Cacucci, Feltrinelli, pp. 224, € 18,00).

L’incontro tra il variopinto corteo di Montezuma e il nutrito seguito di Cortés avviene dunque su un «tappeto di fiori» che, lontano dall’essere metafora della speranza umana, è, piuttosto, parte integrante dell’apparato scenico, sfondo di vertiginosi accadimenti che avrebbero cambiato il mondo occidentale: «A me pare – ha avuto modo di dire Enrigue – che la caduta di Tenoxtitlan sia l’atto fondativo della modernità». Il rovescio di questa storia, invece, è la barbarie compendiata nell’immagine dei quarantamila teschi esposti al centro della cittadella imperiale «con ancora attaccate alcune vertebre a fungere da sonagli»: vànitas che celebra la condizione effimera dell’umanità, attestandone la ferocia.

Le vicende raccontate nel Sogno coprono un arco di ventiquattro ore: l’8 novembre del 1519 in cui i conquistatori arrivano nella capitale dopo mesi trascorsi alla mercé di una geografia insidiosa, i corpi sudici e infestati dai parassiti, diventa la stretta cornice temporale di un romanzo in cui l’archivio storico è al servizio della forma fantastica. Le fonti (lettere, memorie, rapporti, atti, registri) costituiscono una miniera inesauribile di realia che rendono sicuro l’incedere della voce narrante tra le pieghe della finzione, mentre il materiale antropologico apre inaspettate possibilità alla facoltà immaginativa: «gli sembrava logico che una cultura che aveva inventato il materasso in piume d’oca non avesse concepito i cardini delle porte: uno strumento per gente che non dorme bene». È la voce in terza persona a parlare, mentre tiene la materia fantastica sotto il controllo del proprio progetto compositivo.

Tutti i principali attori sono centri di coscienza intermittenti, ma solo a Jazmín Caldera (il suo nome è, di nuovo, quello di un fiore), terzo al comando delle truppe spagnole, spettano gli oneri del testimone e del portavoce. Come l’Astolfo di Calvino, «esploratore lunare» che incarna il manifestarsi di un ordine raccontabile, anch’egli è elegantemente sorretto dalla distanza ironica che presidia l’epica di «quelli di sopra», trasformandola in commedia.

La dimensione ucronica non abdica al senso di responsabilità con cui deve fare i conti la scrittura: Álvaro Enrigue ha lavorato alla luce del sole per raccontare l’enigma dell’incontro fra Montezuma e Cortés. I «forse» seminati nel romanzo alludono alla possibilità di rivedere e correggere i modi e i termini del nostro rapporto con il mondo, e, al contempo, sono appelli alla ricerca di un presente altro, a partire da un qui sempre perfettibile. Raccontare come sarebbe potuta andare non implica il sottrarsi al pantano di ciò che è stato, bensì patteggiare per una condizione di deliberato straniamento, che genera l’esplorazione da cui vengono ipotesi e prefigurazioni.