L’arte è una famiglia di «strani strumenti» proprio perché, privati della loro utilità immediata, riescono a renderci meno ciechi. Per imparare a vedere, Alva Noë si è impegnato negli anni in progetti artistici, soprattutto in collaborazione con coreografe e danzatrici. Docente di filosofia a Berkeley, all’interno del «Programma di scienze cognitive» e dei «nuovi media», porta però con sé molte tracce della sua famiglia d’origine, immersa nella scena artistica newyorkese degli anni Sessanta. Il suo Strani strumenti L’arte e la natura umana (traduzione di Vincenzo Santarcangelo, Einaudi, pp. 322, € 24,00) è uno dei libri più illuminanti sulla natura dell’arte (e sulla natura umana) degli ultimi decenni.

Forse non a caso, il saggio comincia con il ricordo di uno scambio di battute tra l’autore e un imprecisato «artista», che, spulciando nelle note riunite a fondo volume – una sorta di commentario al testo – scopriamo essere suo padre: «Qualche anno fa mi capitò di parlare con un artista, che mi rivolse alcune domande sulla scienza della percezione visiva. Gli spiegai che chi si occupa di visione cerca di comprendere come sia possibile che vediamo così tanto – un mondo dai colori vivaci e ad alta definizione, popolato da oggetti nello spazio – quando il materiale da cui partiamo consiste in una serie di microscopiche immagini distorte e capovolte nella retina […] La risposta dell’artista mi fece trasalire. […] Sciocchezze, esclamò. La vera domanda è: perché siamo così ciechi, perché vediamo così poco quando intorno a noi c’è così tanto da vedere?».

Dopo questo esordio sotto il segno del padre, si inaugura una minuziosa analisi dell’allattamento materno. Che cosa ha a che fare questo con l’arte? Molto. Per arrivarci, bisogna passare dalla peculiare concezione che Noë ha della coscienza umana, in compagnia, ormai, di un crescente numero di ricercatori.

Come molti filosofi interessati alla filosofia della mente e all’estetica, Noë si è confrontato con la neurobiologia e il cognitivismo, contestando un assunto spesso dato per scontato, e cioè che «noi siamo il nostro cervello» e che quindi la nostra coscienza sta «dentro» la nostra testa. Come se la nostra vita si svolgesse tutta in un teatrino encefalico dove vanno in scena gli stimoli provenienti dall’ambiente. Secondo Noë le cose non stanno così. Uno dei suoi precedenti libri, Perché non siamo il nostro cervello (Cortina 2010), nell’originale aveva un titolo più esplicito e programmatico: Out of our heads («Fuori dalle nostre teste»). È certamente anche grazie alle nostre teste, ma insieme fuori di esse, che si organizza la nostra esperienza. L’organismo e l’ambiente si codeterminano attivamente. Anzi, enattivamente: non c’è un ambiente già bello e fatto che innesca stimoli da «computare» cerebralmente, ma un complesso organismo che partecipa all’organizzazione dell’esperienza di cui è parte, «enattivandola», cioè mirando a «realizzarla» in maniera creativa e sensata. La vasta galassia di questa prospettiva delle scienze cognitive va sotto l’etichetta di «enattivismo», le cui radici principali affondano nel pragmatismo americano, nella fenomenologia di Merleau-Ponty, negli studi sull’autopoiesi di Varela, Thompson e Rosch.

Torniamo all’allattamento: l’arte occidentale è piena di madri che allattano, dalle raffigurazioni della Vergine con il bambino fino ai quasi-allattamenti di Jenny Saville. Mentre per gli altri mammiferi l’allattamento non crea particolari problemi, negli umani questo primo legame d’amore è subito complicato e problematico: certo, soddisfa bisogni naturali e ha diverse funzioni (nutritive e affettive), ma è strutturato nel tempo come se fosse una prima conversazione, dotata di ritmi propri, di una propria organizzazione che impone ascolto e iniziativa, attese e attenzioni non interamente controllabili né dalla madre né dall’infante. E, insieme a qualche frustrazione, dà piacere. A partire dall’allattamento, Noë descrive analoghe «attività organizzate» che, «fuori dalle nostre teste», concorrono alla nostra formazione. Non sono semplici eventi neuronali di cui siamo soggettivamente inconsapevoli, ma neppure atti deliberati e intenzionali. Sono piuttosto qualcosa come «abiti», situazioni in cui il nostro organismo è coinvolto: una conversazione, la percezione dell’ambiente, ma anche camminare o ballare, cucinare o orientarci nelle strade di una città: tutte tecnologie, più o meno sofisticate e «spontanee».

Ora, se l’arte è uno strumento, è uno strumento «strano», perché, pur facendo uso di varie tecniche, non si situa sul loro stesso livello, tra le infinite «attività organizzate» che ci plasmano, ma le porta alla luce, le rivela: se l’impalcatura delle tecniche quotidiane ci rende ciò che siamo, l’arte ci rivela a noi stessi, mettendo «on display», nei modi più disparati, questa stessa impalcatura. «L’arte mira a svelare la nostra natura di esseri umani e dunque a regalarci un’opportunità unica: quella di osservarci intenti nell’atto di realizzare la coscienza percettiva del mondo che ci circonda – inclusa la coscienza estetica».

Tuttavia, l’arte non occupa una regione separata dell’esperienza, perché questo secondo livello in cui opera è già interno al primo: si limita a portarlo sotto i nostri occhi: «Non si tratta semplicemente di guardare quell’attività dall’alto, ma del tentativo, attuato all’interno della stessa attività, di comprendere dove ci troviamo. Si viene così a creare un legame tra le arti e i dominî del vivente – le attività organizzate dalle quali esse sorgono –, un legame che è fondamentale, reale, essenziale sul piano delle nostre esistenze». Un legame fatto di retroazioni continue: il secondo livello retroagisce sul primo, riorganizzandolo, e dunque riorganizzando ciò che siamo.

Alcuni artisti ne erano consapevoli: «Lo scopo dell’arte è mettere a nudo le domande che sono state oscurate dalle risposte» scrisse James Baldwin; «L’arte è ciò che rende la vita più interessante dell’arte», disse Robert Filliou. E un maestro dell’estetica europea, Emilio Garroni, aveva esplorato lo stesso terreno parlando dell’arte come una serie di (meta)operazioni che agiscono su operazioni ordinarie, dal loro interno, mettendole in mostra. Il lettore troverà nel libro di Noë numerosi esempi che mostrano come l’arte permetta una sorta di vista «aumentata» o «alternativa» del mondo e della vita, insieme a un elogio della noia, una distruzione della neuroestetica, e tanto altro. Tutto discutibile, certo: ma non è questo il contrassegno di quella pratica che è la filosofia?