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Altro che fallimento, il «berlusconismo» è la norma

Altro che fallimento, il «berlusconismo» è la normaSilvio Berlusconi in senato – Reuters

Il 26 gennaio del ’94 Berlusconi annunciava, con un celebre messaggio televisivo, la sua «discesa in campo». Venti anni dopo, lo stesso Berlusconi si trova ingloriosamente fuori dal Parlamento, assediato […]

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 21 gennaio 2014

Il 26 gennaio del ’94 Berlusconi annunciava, con un celebre messaggio televisivo, la sua «discesa in campo». Venti anni dopo, lo stesso Berlusconi si trova ingloriosamente fuori dal Parlamento, assediato da ricorrenti guai giudiziari, il suo movimento politico appare in piena crisi, diviso e sfibrato. Si può tuttavia parlare di «fallimento del berlusconismo»?

Non certo del fallimento della cultura politica di cui Berlusconi si è fatto portatore.

Il suo «anti-antifascismo» – come lo ha classificato il suo più lucido studioso, Giovanni Orsina – fino agli anni Ottanta relegato in posizioni minoritarie dello spettro politico, si basava e si basa su una critica organica al carattere programmatico dell’antifascismo, ben tradotto nella nostra Costituzione. Ebbene, è purtroppo difficile negare che il «discorso» berlusconiano sui limiti e i difetti congeniti della carta costituzionale (e della democrazia dei partiti da essa scaturita) mantenga una salda egemonia nel senso comune di tutti gli schieramenti politici. A questo mirava la battaglia delle idee della destra italiana, e questo obiettivo ha raggiunto grazie al berlusconismo.

Si dirà, è la critica che proviene da ambienti del «moderatismo», che Berlusconi non ha saputo attuare quella rivoluzione «liberale», della quale a parole si era presentato come araldo. Ma, senza tirare in ballo l’utopia di Adam Smith, bisognerà ammettere che l’ordine neo-liberale è stato bene o male restaurato nel ventennio. I partiti assomigliano sempre più a club di notabili, sul modello liberale ottocentesco, che non alle esecrate macchine ideologiche di massa che hanno strutturato la politica nel Novecento. La presenza dello Stato nell’economia è oggi ai minimi rispetto agli altri paesi civilizzati; «lacci e lacciuoli» all’iniziativa privata ce ne sono ancor meno.

Bisognerebbe semmai affrontare un ragionamento serio su come questa libertà assoluta sia stata usata dalle nostre classi dirigenti economiche. Ma questo tipo di ragionamento non è molto congeniale al nostro «moderatismo», troppo occupato a chiedere caparbiamente «di più» in questa suicida direzione, senza fermarsi a considerare le conseguenze di quanto fino ad ora ottenuto.
Se si getta poi uno sguardo oltreconfine, ci si accorgerà che il berlusconismo, lungi dal rappresentare un’anomalia rispetto al panorama politico dell’Occidente, ben si è configurato come l’aspetto italiano di un fenomeno più generale. Il legame di ferro tra interessi affaristici (direttamente rappresentati ai vertici dello Stato) e potere mediatico ha contraddistinto tanto l’Italia berlusconiana quanto gli Stati Uniti di Bush, la Spagna di Aznar e la Gran Bretagna di Blair. In tutti questi paesi si è assistito ad un ingente processo di redistribuzione verso l’alto della ricchezza attraverso l’attacco al salario diretto e differito, di asservimento dei mezzi di comunicazione e di restringimento dei tradizionali spazi democratici. Ancora una volta, la fase getta una luce sinistra sull’utilizzo di questi margini di manovra da parte delle classi dirigenti; ma a tanto esse hanno mirato, e tanto hanno ottenuto.

Quella del «fallimento del berlusconismo» pare dunque una categoria autoassolutoria per chi, durante questo ventennio, al berlusconismo si è presentato come alternativo.

Ma non è stato piuttosto il centro-sinistra, che in questi anni di Berlusconi è stato il contraltare, a fallire? Attorno al Cavaliere si è infatti cementato un blocco sociale fatto di interessi nuovi, sorti dalla crisi dell’età dell’oro del capitalismo, e di interessi parassitari atavici, ed a questo blocco sociale i governi berlusconiani hanno dato risposte concrete: governi duraturi, infatti, perché rispondenti ad interessi reali, per quanto retrivi. I governi di centro-sinistra invece, del potenziale blocco sociale che attorno alle varie coalizioni sembrava via via prender forma, hanno creduto di poter fare a meno: prendevano voti da una parte, ma li mettevano a servizio dell’altra.

Si rassicuravano «l’Europa», i «mercati», gli «alleati», mentre gli elettori e i militanti della sinistra vedevano, una dopo l’altra, naufragare le conquiste ottenute a fatica nel corso della precedente esperienza repubblicana.

Di qui, a ben vedere, la crisi reale del centro-sinistra italiano degli ultimi vent’anni: coalizioni che hanno pensato di poter compensare con l’alchimia politica le proprie deficienze di comprensione del reale e di azione su di esso. Le spiegazioni complottistiche delle difficoltà esperite dalla sinistra al governo, con al centro le mene dei vari Bertinotti, D’Alema, Mastella, rappresentano la spia di un atteggiamento tutto politicista, appannaggio non a caso di gruppi dirigenti ripiegati su se stessi.

All’uscita di scena di Berlusconi può insomma non corrispondere una crisi del berlusconismo: è una cultura politica destinata a caratterizzare anche il futuro del Paese, a meno di un radicale cambiamento di rotta da parte dei suoi oppositori.

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