Lavoro

Almaviva, licenziati di nuovo

Almaviva, licenziati di nuovoManifestazione delle operatrici Almaviva – LaPresse

Call center L'azienda annuncia il taglio di 2511 posti. Solo pochi mesi fa aveva firmato un accordo che scongiurava 3 mila uscite. Chiudono le sedi di Roma e Napoli, 400 trasferimenti contestati a Palermo. Accuse incrociate tra i sindacati e il colosso dei servizi in outsourcing

Pubblicato circa 8 anni faEdizione del 6 ottobre 2016

Nuova bufera su Almaviva: il maggior gruppo di call center in Italia ha annunciato che licenzierà 2511 persone, chiudendo le sedi di Roma e Napoli. La decisione pare ricalcare quella già presa nel marzo scorso, quando erano dati in uscita 2988 dipendenti, poi ritirata il 31 maggio grazie a un accordo siglato con i sindacati e la mediazione del governo. Ma stavolta il fulmine arriva ancora più inaspettato, in quanto proprio in forza di quell’intesa i siti dei capoluoghi laziale e campano, insieme a quello di Palermo, erano coinvolti in un piano di solidarietà di sei mesi più altri eventuali dodici. Percorso che ha imposto sacrifici a stipendi già bassi, con una mazzata che si era aggiunta qualche settimana fa: il trasferimento di 396 operatori dalla città siciliana a Rende, in Calabria.

Il calcolo è presto fatto: questa volta sono coinvolti 2907 lavoratori, quasi quanto quelli di marzo: per circa 400 si tratta soltanto di un trasferimento, è vero, ma si può immaginare la difficoltà di dover cambiare residenza per chi guadagna tra i 600 e i 700 euro al mese. Lasciare una casa di famiglia o acquistata con il mutuo, dover pagare una baby sitter perché non hai più i nonni che ti guardano i bambini, cercare un nuovo lavoro per il coniuge. I sindacati parlano di «licenziamenti mascherati»: «Nell’epoca in cui basta girare una chiavetta per far migrare una commessa da una sede all’altra, è anacronistico voler spostare le persone: secondo noi è un pretesto, come un pretesto si utilizza adesso per dare il benservito a 2511 dipendenti», dice Massimo Cestaro, segretario generale Slc Cgil.

Per capire come si sia arrivati ai licenziamenti e al muro contro muro con i sindacati bisogna andare all’ultimo incontro di monitoraggio dell’accordo di maggio, tenuto al ministero dello Sviluppo il 22 settembre scorso. È lì, accusa l’azienda, che «si è attestato il rifiuto da parte delle organizzazioni sindacali di sottoscrivere lo specifico accordo sulla gestione di qualità e produttività individuale, leva distintiva per il progressivo riassorbimento degli esuberi». Cgil, Cisl e Uil avrebbero cioè tradito l’intesa di maggio, impedendo ad Almaviva di applicare tutti i mezzi possibili per contenere le perdite.

L’emorragia dai conti di Almaviva è costante almeno dal 2012: «Negli ultimi quattro anni – spiega la nota che annuncia la “riorganizzazione” – con una forza lavoro praticamente invariata, l’azienda ha visto diminuire del 50% i propri ricavi, spesso a vantaggio di attività delocalizzate in aree extra Ue, con un’aggiuntiva e rilevante accelerazione negli ultimi mesi». Il nuovo piano prevede dunque «la chiusura dei siti produttivi di Roma e di Napoli e una riduzione di personale pari a 2511 persone, 1666 a Roma e 845 a Napoli. Le perdite medie mensili afferenti alle due sedi nel periodo successivo all’accordo del 31 maggio, nonostante l’utilizzo di ammortizzatori sociali, sono pari a 1,2 milioni di euro su ricavi mensili di 2,3 milioni di euro».

Almaviva, oltre ad accusare i sindacati per il mancato accordo sulla produttività, torna ad attaccare le gare al massimo ribasso, e cita gli esempi «del servizio infoline del Comune di Milano e dello 060606 del Comune di Roma, fino alla recente gara per il servizio Recup della Regione Lazio con base d’asta sottostante i minimi contrattuali di qualsiasi contratto nazionale di lavoro».

E poi c’è «l’incontrollato aumento delle delocalizzazioni in Paesi extra UE: nel 2015 è raddoppiato il numero dei call center che operano per il mercato italiano con oltre 25 mila posti di lavoro». Il governo, insomma, non avrebbe vigilato.

Per il sindacato, però, l’accusa di non aver voluto sottoscrivere un accordo sulla produttività non è altro che un pretesto: «Ci è stato proposto un piano sui controlli a distanza, ma essendo la nuova legge farraginosa e scritta male – spiega Cestaro della Cgil – noi abbiamo chiesto che fosse sottoposto per una certificazione prima al ministero del Lavoro e al Garante Privacy. Su queste cose non si scherza: la violazione della privacy è reato penale dal 2010. L’azienda si è rifiutata di farlo: segnalo che secondo la legge, tra l’altro, basta la certificazione del ministero per poter applicare il telecontrollo anche unilateralmente. E comunque noi non siamo contrari a un accordo: quindi, come si vede, stanno usando questa scusa per poter licenziare».

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