Lavoro

Almaviva, 153 lavoratori licenziati due volte

Call center Ribaltata dalla Corte di appello la sentenza che li aveva reintegrati

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 20 aprile 2019

Nuova puntata nell’infinita vicenda giudiziaria legata ai 1.666 lavoratori della sede di Roma del call center Almaviva che furono licenziati la notte tra il 21 e il 22 dicembre 2016 al ministero dello Sviluppo economico in quello che è ancora il più grande licenziamento collettivo degli ultimi 30 anni.

Ieri la Corte di appello di Roma ha ribaltato la sentenza del tribunale che il 16 novembre 2017 aveva reintegrato i 153 lavoratori difesi dallo studio Panici e Guglielmi, ri-licenziandoli di fatto. Nelle 23 pagine di sentenza emessa dal collegio guidato dal giudice Alessandro Nunziata si «respinge gli originali ricorsi dei reclamanti» sebbene si «dichiara l’inammissibilità della domanda restitutoria azionata dalla reclamante»: i lavoratori quindi non dovranno restituire il risarcimento danni per il licenziamento illegittimo e gli stipendi percepiti dal novembre 2017 a oggi, riconosciuti dal tribunale in primo grado.

Ora toccherà alla Cassazione scrivere la parola definitiva sulla vicenda in un tempo stimabile in 6-8 mesi mentre vanno avanti altri giudizi di vari gruppi di licenziati.
La sentenza tende ad unificare il destino dei lavoratori di Roma – tutti licenziati – con quelli di Napoli che invece firmarono al ministero l’accordo proposto dall’azienda e sottoscritto dai sindacati confederali e appoggiato dall’allora governo Renzi in prorogatio con i ministri Carlo Calenda e la viceministro Teresa Bellanova. L’accordo prevedeva un ulteriore taglio dello stipendio e controlli a distanza: le rappresentanze sindacali unitarie (Rsu) di Napoli firmarono, quelle di Roma in modo unitario si opposero su mandato preciso dell’assemblea dei lavoratori del sito di via di Casal Boccone che da anni era sotto ammortizzatori sociali tanto che i lavoratori part time erano rientrati tra gli incapienti per gli stipendi sempre più decurtati.
Per il collegio di secondo grado non è quindi vero che la sede di Roma risulti ancora aperta e che le commesse tolte e spostate in altre sedi di Almaviva (Catania, Rende, Milano, Napoli) possano ritornare a Roma: «Il trasferimento o la concentrazione presso altre sedi delle commesse ancora in lavorazione nelle sedi da chiudere era opzione espressamente contemplata nel progetto di riorganizzazione (…) sottoposta al vaglio dell’interlocutore sindacale» che poi sottoscrisse l’accordo. Questa la motivazione principale per cui «il licenziamento al vaglio è legittimo».

Tutta la prima parte della sentenza verte invece sulla citazione in giudizio di Almaviva che era rivolta solo al primo dei lavoratori reintegrati con la formula «più altri». La difesa si è costituita per il primo lavoratore – più cautelativamente per gli altri 152 – sottolineando l’errore. Il collegio ha deciso invece – citando una sentenza della cassazione considerata inconferente dalla difesa perché si riferisce alla notifica dell’atto e non ai convenuti in giudizio – di poter discutere il ricorso per tutti i 153 lavoratori, considerandoli «identificabili» ma allo stesso tempo «contumaci».

A conferma di quanto sia intricato il caso, la sentenza si conclude così: «La complessità delle vicenda e delle questioni di diritto ad essa connesse giustifica la compensazione delle spese del doppio grado di giudizio».
«La corte di appello più che approfondire la sentenza di primo grado che aveva acclarato come la sede di Roma di Almaviva sia ancora aperta si è limitata a riprendere sentenze simili già emesse. In Cassazione contiamo di trovare ascolto alle nostre ragioni», commenta l’avvocato Pierluigi Panici.

Almaviva, contattata dal manifesto, non ha voluto commentare la sentenza, seppur favorevole.

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