Visioni

Almada, quando il palcoscenico è il racconto del presente

Un’immagine da «Calvario» di Rodrigo FranciscoUn’immagine da «Calvario» di Rodrigo Francisco

A teatro Si è chiusa la quarantesima edizione del festival portoghese sotto la direzione di Rodrigo Francisco. «Calvario» è l’opera più ardita, riscrittura del «Minetti» di Thomas Bernhard

Pubblicato circa un anno faEdizione del 22 luglio 2023
Gianfranco CapittaALMADA (PORTOGALLO)

Si è appena concluso il Festival di Almada, che questa estate ha festeggiato la propria quarantesima edizione, essendo nato pochi anni dopo la Rivoluzione dei garofani e la cacciata di Salazar, nella città operaia per eccellenza (che di anni ne compie 50), e che solo il Tago separa da Lisbona. Una città di cultura (oltre che di efficientissimi servizi): nei primi anni c’era innanzitutto la voglia di conoscere quanto del mondo esterno era stato oscurato dal regime; oggi non è diminuita la curiosità verso il mondo, e Rodrigo Francisco che da qualche anno è succeduto a Joaquim Benite nella direzione, può vantare un programma che a fianco al nuovo ha invitato e mostrato al pubblico i grandi maestri della scena europea di oggi, articolata nelle sue diverse generazioni, da Peter Stein a Declan Donnellan a Milo Rau.
Senza rinunciare però alla propria immagine di origine popolare: nella grande scuola infantile dove il festival ha il suo cuore pulsante, con la cucina del ristorante, le mostre informative, uno spazio musicale e un grande teatro all’aperto (tutte cose insieme che la burocrazia italiana non permetterebbe). La scuola è contigua al teatro, modernissimo e articolato in più sale di diverso formato che si adattano a qualsiasi linguaggio teatrale.

PROPRIO il direttore Francisco come drammaturgo e regista ha presentato l’opera più ardita e curiosa del festival: Calvario (significato simile all’espressione italiana) che è una riscrittura iperteatrale del Minetti, ritratto di un artista da vecchio di Thomas Bernhard, l’opera che il geniale drammaturgo austriaco elaborò sul personaggio del massimo attore tedesco della fine del secolo scorso. Uno spettacolo a tratti divertente a tratti pensoso, una vera riflessione sul rapporto tra personaggi, attori e vita quotidiana, indagine antropologica tra palcoscenico e «camerini», davanti e dietro al sipario.
Al contrario, ma paradossalmente affine come riflessione, Optraken mostra nel silenzio assoluto le disavventure di cinque attori/mimi francesi costretti a subire, e cercar di reagire, a tutte le «trappole» insidiose che il palcoscenico può tendere ed aprire in continuazione ai suoi frequentatori. Massimo divertimento del pubblico alle loro disavventure.

Immagine di scena da «Everywoman» di Milo Rau

DI TUTT’ALTRO spessore Everywoman, spettacolo dove Milo Rau si libera per una volta del «moralismo un po’ meccanico e ripetitivo cui ci ha abituato. Punto di partenza è Jedermann, ovvero Ognuno, che dalla fondazione compare in apertura del festival di Salisburgo, sul testo di Hoffmansthal e con la regia originaria di Max Reinhardt. Di recente, per molti anni è stato appannaggio di Klaus Maria Brandauer (lo portò negli anni 80 anche sulla romana piazza del Campidoglio), da poco gli è succeduto Peter Simonischek. Ma la parabola umana di chi deve misurarsi con gli altri (Ognuno appunto) diviene qui Ognuna, perché a porgere interrogativi è la vicenda di una donna che si confronta con un’altra donna, più anziana di lei. Protagonista e coautrice è Ursina Lardi, attualmente una delle attrici più importanti della Schaubuhne berlinese. «L’altra» con cui lei si misura è anche una signora della scena, Helga Bedau, che appare solo in video grazie a un abile montaggio. Ogni donna diviene così un confronto profondo tra due «femminilità», nel rispetto e nel dolore, e nell’incrocio delle immagini registrate e dal vivo, cui si continua a pensare anche dopo la fine dello spettacolo.

GRANDE SUCCESSO ha riscosso pure Peter Stein (anche nell’incontro col pubblico) che ha portato Il compleanno di Harold Pinter, visto in Italia la scorsa stagione. Meno convincente invece il ritorno di un altro maestro della scena europea, Declan Donnellan, che insieme a Nick Orderon, suo abituale collaboratore, ha realizzato una nuova versione di un testo fondamentale della scena europea, che ancora continua a costituire sorgente e stimolo per molto teatro fino a tutto il novecento: La vita è sogno di Calderon de la Barca. Fin dal seicento barocco e controriformista, quel titolo ha costituito un banco di prova, e di rilancio, per moltissimi autori e registi (basti pensare che nella seconda metà del secolo scorso si erano applicati a lavorarci personalità come Pier Paolo Pasolini e Luca Ronconi).
Nello sforzo di volerne dare una lettura in qualche modo «pop», Donnellan finisce per arrivare al limite dell’eccesso, tra visioni e costumi che rischiano di banalizzare quella dolente tragedia tra padre e figlio, Basilio che su una torre ha imprigionato Sigismondo, con l’amore e le visioni di Rosaura a complicare le cose. Donnellan preme sul pedale del ridicolo. Peccato, balletti e urla assai poco barocchi tolgono alla tragedia ogni sua tensione.

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