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Alma e Alua Ablyazov, ostaggi in nome del padre

Alma e Alua Ablyazov, ostaggi in nome del padreFrancobollo del Kazakistan con immagine del presidente Nursultan Nazarbaev, emesso nel 1993

Roma ko Dopo il dietrofront di Letta i legali chiedono una forte iniziativa diplomatica. Ma le probabilità che il caso si risolva restano «basse»

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 14 luglio 2013

«Diciamo le cose come stanno: la signora Shalabayeva e sua figlia sono ostaggi e la nostra priorità è liberarli dalle mani delle autorità kazake». Riccardo Olivo, uno dei legali della moglie del dissidente ed ex oligarca Muktar Ablyazov non nasconde il timore e le difficoltà del caso: «La revoca dell’espulsione è importantissima – dice Olivo al manifesto – aiuta ma non risolve. A questo punto la frittata è stata fatta ed è enorme. Le possibilità che la signora torni libera sono basse». Tra Roma e Astana non esistono trattati giuridici ma solo accordi commerciali (e anche molto rilevanti per gli affari di Eni e Finmeccanica).

[do action=”citazione”]Le autorità kazake ringraziano l’Italia per la consegna di moglie e figlia del «dissidente» Ablyazov. Contro Alma Shalabayeva processo in estate. I parenti temono per la bambina di 6 anni[/do]

A quanto risulta, Alma Shalabayeva sta bene e ha l’obbligo di dimora presso la casa dei suoi genitori. Anche per lo studio Vassalli-Olivo gli unici contatti con l’assistita sono «indiretti», forniti dall’ambasciata italiana. L’unico ufficiale, precisano alla Farnesina, risale al 3 giugno scorso, quando la signora ha firmato nel consolato di Almaty i documenti per legalizzare la firma nella richiesta contro l’espulsione poi revocata. «Spero che ora si attivino verso le autorità», dice Olivo in proposito.
La tv kazaka ha trasmesso le immagini della donna sia all’arrivo in aeroporto sia nel giardino della casa di Almaty. Il fine è fin troppo ovvio: dimostrare al marito latitante che sono lì, per ora in buone condizioni, e presentare all’opinione pubblica kazaka una verità che potrà tornare utile nei prossimi giorni, quando certamente si aprirà un processo contro la signora. Il messaggio in patria è che la moglie di questo ricco ex banchiere accusato di corruzione è tornata per assistere l’anziano padre malato di Alzheimer dopo un arresto e un espulsione decisi non dal Kazakistan ma da autorità terze, italiane. Nell’attesa che le carte vere o false di questo giallo internazionale si appariglino, il cane si morde la coda: un «errore» fatto a Roma (ammesso dal premier e da 3 ministri del governo Letta) fornisce la cornice perfetta per un processo penale e una resa dei conti politica finale ad Astana.

L’«errore» di Roma copre Astana

Dalle informazioni diffuse sul profilo facebook di Madiyar, uno dei figli di Ablyazov apparentemente residente in Inghilterra, la magistratura kazaka contesta alla signora la falsificazione del passaporto n. 08162365 emesso il 3.8.2012. Una circostanza che i suoi legali kazaki smentiscono su tutta la linea. Anzi, rovesciano sulle autorità l’accusa di averlo emesso al solo scopo di «incastrare» la moglie del dissidente. Com’è noto, infatti, Astana ha aperto un procedimento penale contro la signora soltanto il 30 maggio, il giorno prima della deportazione dall’Italia, mentre Shalabayeva e la figlia erano detenute al Cie di Ponte Galeria. Non esistono prove né indizi, del resto, che la signora – fuggita dal 2009 – abbia mai usato quel passaporto. In più, l’uso stesso di quel lasciapassare in Europa sarebbe stato inutile per Shalabayeva, che oltre ad averne uno kazako regolarmente valido fino al 2017, aveva anche ben due permessi di soggiorno di paesi Ue, uno emesso dalla Gran Bretagna valido dal 1 agosto 2011 (dopo la concessione dell’asilo politico al marito, che si estende anche ai familiari) al 7.7.2016 e un altro concesso dalla Lettonia il 28.8.2012 e valido fino all’ottobre di quest’anno. Secondo i suoi legali, perciò, Shalabayeva non aveva alcun motivo di falsificare un documento kazako né la polizia ha finora fornito ai legali alcun indizio o episodio specifico in proposito. Il processo contro Shalabayeva – che si dice Nazarbayev voglia celebrare già in agosto, con i parlamentari europei al mare – puzza fin dal principio. Ed ha come unico scopo politico ricattare il marito, tuttora in libertà. La minaccia, evidente, riguarda la figlia di sei anni: vista la latitanza del padre, la possibile incarcerazione della madre e le precarie condizioni di salute dei nonni, la piccola per legge potrebbe essere destinata all’orfanotrofio per mancanza di parenti che la possano accudire. Non a caso la famiglia Ablyazov parla apertamente di «metodi staliniani».
Di fronte al caos italiano, il Kazakistan fa spallucce. Una nota del ministero degli Esteri afferma che l’annullamento dell’espulsione deciso da Letta è una questione «interna» del nostro paese e «significa semplicemente che le autorità italiane hanno restituito alla vittima il diritto di visitare quel paese in futuro». La signora però resta dov’è e affronterà le accuse contro di lei. L’unica garanzia chiesta e ottenuta dall’Italia è una lettera diplomatica che attesti il rispetto dei suoi diritti. Nulla di diverso da una ricevuta di ritorno.

I meccanismi perversi della Bossi-Fini

Il caso Shalabayeva somiglia sempre di più a una «rendition al cubo»: in cui un governo europeo ha deportato illegalmente non più un ipotetico terrorista ma addirittura una donna e una bambina innocenti. Due congiunti che l’uomo (tuttora un rifugiato politico in Inghilterra) ha voluto mettere al sicuro da possibili «incidenti». Appare del tutto inverosimile che funzionari della polizia italiana abbiano deciso un’operazione del genere senza ordini precisi da un livello più alto. La revoca del provvedimento di espulsione decisa dal governo, spiegano i legali dello studio Vassalli-Olivo, è un «passo positivo» che rischia di essere però una «vittoria di Pirro» se non accompagnato da un’azione diplomatica vigorosa e determinata.
Il caso Shalabayeva, tra l’altro, pur riguardando una famiglia importante e con immensi mezzi economici, illumina bene i meccanismi perversi della Bossi-Fini: «Di fatto opporsi a un provvedimento di espulsione è impossibile – spiegano nello studio Vassalli-Olivo – noi l’abbiamo impugnato subito ma è comunque esecutivo. Abbiamo perfino fornito tempestivamente una dichiarazione del governo centrafricano che attestava la validità del passaporto della signora». Ma è stato tutto inutile.
Al di là delle pezze di appoggio che certamente saranno trovate e prodotte nei prossimi giorni, resta il fatto che (forse) cercavano un uomo e invece hanno deportato una donna e una bambina su un aereo privato… Forse perché per la legge kazaka i contratti petroliferi possono essere annullati unilateralmente nel caso (i paesi delle compagnie) «mettano in pericolo la sicurezza nazionale del paese».

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