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Allora & Calzadilla l’archeologia del presente

Allora & Calzadilla l’archeologia del presente"Raptor's Rapture" (2012)

Mostre Al Maxxi fino al 30 maggio è visibile la mostra dei due artisti portoricani di adozione autori di installazioni e video monocanale.

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 12 maggio 2018

Una pompa di benzina “pietrificata” accoglie lo spettatore all’inizio di un percorso espositivo accuratamente calcolato, in cui ogni opera acquista un suo senso preciso, all’interno di una riflessione critica sulla Storia ancora prima che sull’Arte. E nella scultura di un moderno manufatto, che duplica un così evidente simbolo della capitalistica civiltà dei consumi, è già racchiuso il nucleo dell’immaginario estetico dei due artisti Jennifer Allora & Guillermo Calzadilla (statunitense lei, cubano lui, ma residenti a Portorico), presentato al pubblico italiano nella mostra Blackout – curata da Hou Hanru e Anne Paolopoli – allestita al Museo Maxxi di Roma fino al 30 maggio.

Il tema intorno al quale ruota l’esposizione, costituita da opere oggettuali, installazioni e videoinstallazioni è, come scrivono i due curatori nell’introduzione al catalogo (edito da Lazy Dog), l’energia del vuoto. Ma l’energia è anche uno strumento di ricatto e di arricchimento economico (declinata di volta in volta in petrolifera, elettrica, fotovoltaica), un’energia legata al Potere delle multinazionali. L’energia come elemento metonimico, fossile o scarto tecnologico, ritorna in diverse opere, dalla citata Petrified Petrol Pomp (2012) alla serie Solar Catastrophe (2016), composta da imponenti tele su cui sono incollate frammenti di celle fotovoltaiche.

L’approccio geopolitico di Allora & Calzadilla, fautori di un’arte non solo attiva ma attivista, la loro riflessione su un passato sedimentato che influenza il presente, il loro pensiero sugli intrecci tra economia ed esistenze di popoli e individui nell’era della globalizzazione, rende i loro lavori, al di là dell’impatto visivo spesso seduttivo e spettacolare, fortemente politici. La mostra prende il titolo da una delle opere esposte, costituita da un pezzo di trasformatore elettrico esploso durante il blackout che, nel 2016, ha lasciato i portoricani senza energia elettrica e li ha fatti ripiombare in una condizione arcaica e primitiva. Portorico si ritrova spesso in una situazione del genere, flagellata dagli uragani (l’ultimo, l’uragano Maria, si è abbattuto nello scorso settembre). Il buio ha lasciato così emergere la fragilità di uno sviluppo industriale e di un fallace benessere (in realtà la metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà), che dipende in tutto e per tutto dagli Stati Uniti. Per usare la parole di Frances Négron Muntaner, l’urgano ha reso evidente “la violenza predatoria del moderno capitalismo coloniale”. Il fatto che quest’isola sia la più antica colonia della storia (dal 1493), la rende ovviamente una metafora vivente dell’imperialismo. In un altro saggio in catalogo T.J. Demos spiega che: “Blackout collega in modo specifico la creazione di energia alla servitù del debito finanziario: entrambe sono forme di privazione, secondo la logica-chiave del capitalismo”; il frammento al centro dell’installazione assume la doppia valenza di “trasformatore di energia e flussi finanziari”.

Accanto agli assemblage scultorei, le immagini in movimento costituiscono uno degli elementi portanti della poetica di A&C, tanto che, a latere dell’esposizione, nella videogallery del Maxxi fino a qualche giorno fa era in programmazione in loop due volte al giorno, una selezione dei loro film (ne hanno realizzati dal 2004 a oggi una ventina), alcuni dei quali presentati nelle sale del museo sotto forma installativa. E’ interessante notare come le stesse opere audiovisive, acquistano un senso percettivamente differente a seconda del contesto fruitivo, come nel caso del suggestivo The Night We Became People Again (2017) che, videoproiettato, fagocita letteralmente lo spettatore che avanza nell’oscurità per prendere gradualmente coscienza dello spazio fisico del museo e degli spazi virtuali riprodotti sullo schermo: un impianto petrolchimico abbandonato e una piantagione di canna da zucchero, le cui immagini sono accompagnate dal suono di una centrale elettrica e dal flusso disarticolato di narrazioni, che mescolano i culti indigeni con le problematiche politiche attuali. Il titolo del lavoro è ispirato a un testo dello scrittore marxista, José Luis González La noche que volvimos a ser gente che, appunto, rovescia da negativo in positivo l’evento del blackout, scorgendo nell’evento la possibilità di tornare a rivedere il puro cielo stellato non contrastato dall’inquinamento luminoso. Del resto l’immaginario di A&C oscilla tra arcaico e moderno, organico e artificiale, fisico e immateriale.

Ciò che affascina nei film/installazioni della coppia è il loro duplice aspetto diurno/notturno, seppure sono dominati da un’oscurità di fondo che li rende perturbanti: sono luoghi in alcuni casi dismessi, in cui lo spettatore accede con gradualità, titubanza e timore; sono spazi naturali/industriali dove miti originari si riverberano sul presente, sovrapponendosi a rituali contemporanei. Abbandonata è anche la location di The Bell The Digger, and the Tropical Pharmacy (2013), uno stabilimento farmaceutico recentemente chiuso le cui pareti vengono demolite da un’ “escavatrice sonica”, la cui pala è stata sostituita da una grande campana di ferro. La modificazione creativa di una macchina gli artisti l’avevano sperimentata dieci anni prima in Returning a Sound (2004) applicando una tromba al tubo di scappamento di una motocicletta guidata da Homer per le strade di Vieques: in questo video il suono è prodotto dalle accelerazioni o decelerazioni della moto. Ma anche in questo caso l’oggetto che potrebbe sembrare surrealista diventa un simbolo politico: grazie al suo passaggio la moto-tromba ri-territorializza acusticamente la geografia dell’isola precedentemente esposta ai bombardamenti. Stesso discorso vale per Sweat Glands, Sweat Lands (2006) in cui un maiale viene arrostito su uno spiedo attaccato alla ruota posteriore di un’auto che accelera e decelera scandito dalla voce di Residente il cantante della band dei Calle 13. Entrambi i video sono visibili in mostra.

Si situano su un versante che potremmo definire in parte “performativo” lavori di produzione più recente, come Half Must/Full Mast (2011), interamente basato su 19 doppie inquadrature orizzontali collegate tra loro con split screen: c’è infatti un meccanismo di contiguità tra le due immagini, grazie all’elemento di un’asta metallica intorno a cui una serie di atleti si esercitano facendo la “bandiera”, si ha l’impressione che l’asta si prolunghi da un’inquadratura all’altra, in alcuni casi fuoriuscendo dal video stesso. Performativo è anche un altro bellissimo lavoro, Raptor’s Rapture (2012), che mette in scena una musicista e un grifone. La prima suona uno degli strumenti musicali più antichi al mondo, ricavato da uno degli ossi che forma l’ala dell’uccello. Dietro il confronto tra la “natura morta” e la natura viva, entrambe unificate in uno spazio avvolto da un efficace chiaroscuro, affiora il discorso su arte, natura e civiltà, come un insieme di tracce che costituiscono un’allegorica riflessione sul mondo e sulla realtà come enigmatica archeologia del nostro presente.

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