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All’Onu scontro Obama-Putin, ma sul campo il dialogo è obbligato

All’Onu scontro Obama-Putin, ma sul campo il dialogo è obbligatoMiliziani dello Stato Islamico – Reuters

Siria Prima dell'Assemblea la Russia apre ad un nuovo negoziato a ottobre, forte dei nuovi equilibri di potere dettati dal fallimento militare Usa e dal ruolo dell'asse sciita sul terreno

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 29 settembre 2015

La diplomazia mondiale ieri ha dato sfoggio di sé, sul fittizio palcoscenico del Palazzo di Vetro: le medie e le super potenze non passano per le Nazioni Unite per scatenare conflitti, tentare di risolverli e ridefinire secondo i propri interessi gli equilibri di potere. Ieri l’apertura della 70esima Assemblea Generale Onu era fatta apposta per Damasco: sullo scranno più alto sono sfilati Stati uniti, Russia, Francia e Iran. Un braccio di ferro di parole, che seguono alle tante dette dietro le quinte o fatte risuonare da aviazioni militari e truppe di terra.

Una sfida posticcia si è consumata tra il presidente Usa Obama e il russo Putin, nel primo incontro dopo due anni. A New York è stata catapultata, come era ovvio, la grande crisi che contrappone in un’inedita guerra fredda le due super potenze: la Siria. Sono state ufficializzate le basi del nuovo dibattito: Washington e Mosca vogliono dialogare, alla luce dell’equilibrio di poteri nato sul campo di battaglia, con gli Usa indeboliti da una strategia fallimentare e l’asse sciita sostenuto da Mosca che mantiene le posizioni.

Dopo l’intervento a gamba tesa su Putin per la questione ucraina, è giunta anche l’attesa apertura: Russia e Iran siano parte della soluzione alle crisi mediorientali. Un’apertura a metà: non si può tornare allo «status pre-guerra», serve una nuova leadership. Ovvia è arrivata anche la replica di Putin: «L’unica soluzione è il ripristino dello Stato: Assad va sostenuto, è l’unica alternativa».

Tant’è: le parole elargite alla vasta platea mondiale resteranno parole. Obama e il Golfo non sono più nella posizione di dettare precondizioni. Si arriverà al compromesso, a cui Putin ha ufficiosamente aperto: Assad farà parte della transizione perché le forze più potenti oggi sul campo (l’asse sciita Hezbollah-Iran e la Russia) non intendono perdere la leadership che ne garantisce gli interessi. Assad ci sarà, almeno nelle prime fasi perché Teheran e Mosca non toglieranno gli stivali dal paese – quelli dei 150mila miliziani sciiti sul campo, unica forza effettiva accanto ai kurdi. Poi potrebbe essere allontanato, sostituito da una figura che rappresenti l’attuale governo di Damasco ma meno problematica.

Già prima dell’Assemblea Generale i primi passi erano stati compiuti. Secondo il vice ministro degli Esteri russo Bogdanov, il mese prossimo si aprirà un nuovo negoziato «su livelli molteplici, esperti, vice ministri e ministri», per uscire dalla crisi siriana. Prenderanno parte quei paesi che negli ultimi 4 anni hanno tenuto acceso il conflitto: Stati uniti, Russia, Iran, Arabia saudita, Turchia ed Egitto. Un negoziato che giunge dopo i fallimenti delle conferenze di Ginevra, ma che parte su presupposti nuovi: la Russia non veste più i panni del mediatore, ma dell’attore militare. Le carte in tavola sono cambiate: seppur Assad controlli solo un terzo del paese (meno di quello che controllava due anni fa), le opposizioni moderate sono scomparse o rifiutano di combattere gli islamisti, il programma di addestramento Usa è trascinato nel fango e l’Iran “minaccia” con le ricchezze derivanti dall’accordo sul nucleare di investire nella propria influenza in Siria.

Bogdanov ha dato dettagli del nuovo negoziato: il dialogo andrà di pari passo con la formazione dei 4 gruppi di lavoro proposti dalle Nazioni Unite (contro-terrorismo, protezione dei civili, questione politica e ricostruzione). La Russia dice di cercare la collaborazione diretta con l’Onu, tenuta ai margini delle decisioni della coalizione che da oltre un anno bombarda Iraq e Siria. Sul terreno la diplomazia ha da tempo lasciato spazio alle azioni unilaterali. Come quelle del guerrafondaio presidente socialista francese Hollande che domenica ha lanciato i primi raid in Siria, atto giustificato con «la legittima difesa» contro eventuali attacchi islamisti su territorio francese. Una particolare interpretazione che (dopo il lancio delle operazioni contro la Libia nel 2011 e il Mali nel 2013) sottintende in realtà la volontà di Parigi di prendere parte alle spinte neo-coloniali globali e alla ridefinizione di confini e zone di influenza.

L’altro asse, quella sciita, sostenuto da Mosca fa altrettanto: le voci sulla creazione di un centro di coordinamento militare a Baghdad tra russi, iraniani, siriani e iracheni in chiave anti-Isis hanno trovato conferma. Il centro si occuperà di gestire le operazioni militari e di controllare direttamente le diverse unità attive sul terreno, sia in Siria che in Iraq.

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