Il luogo comune del sette come numero della crisi, peraltro capitato a ridosso di un anno orribile per la cultura italiana come il 2012 e con l’attuale proiettato a far peggio, poteva lasciar presagire negli organizzatori dubbi e incertezze tali da far chiudere un altro dei tanti festival spirati per mancanza di adeguati sostegni finanziari. Ed invece, controcorrente, la settima edizione delle Voci dell’Inchiesta (10-14 aprile) appena conclusa ha registrato, pur nei restringimenti economici di budget, un incremento di pubblico e di interesse. Importante risultato per un festival atipico, nato sul finire degli anni zero a Pordenone, provincia friulana particolarmente attenta alla cultura e alle forme contemporanee di comunicazione (Le Giornate del Cinema Muto, le attività multimediali di Cinemazero) e subito impostosi all’attenzione per essersi dato una propria originale ed agile formula: giornalismo d’assalto votato alla ricerca della verità e relativa contaminazione e dissipazione dello stesso nel documentario più evoluto e attento alle nuove forme di narrazione.

In questa palese contraddizione, che talvolta si espone a critiche nella sua parte retrospettiva (una su tutte: l’insistere sulla tradizione delle inchieste Rai esemplificata dallo scavo archeologico nelle rubriche anni 60-70 come TV7 e già per il 2014 si annuncia un ulteriore mattone), si è contratto tutto lo sforzo della direzione artistica in loco di Marco Rossitti, studioso attento alle strutture mediatiche e televisive, e del coordinamento organizzativo della «band a part» di Cinemazero. Ma, un festival deve vivere anche sulle proprie contraddizioni, sulle aperture e chiusure di sezioni, , sulle intuizioni, anche fortunate (le anteprime piuttosto che pescare film da un festival all’altro per la mancanza di un minimo di distribuzione del documentario in Italia con di contro il focus sulla coppia D’Anolfi-Parenti) come sul fallimento delle ospitalità o del palinsesto generale e soprattutto nella giustapposizione degli argomenti.

Alle tre esse: sesso sangue sport, alle quali si è aggiunta la quarta di sanità (da sottoporre ad ulteriore verifica Donauspitalà di Nikolaus Geyrhalter), se in altro tempo potevano monopolizzare il programma, hanno finito per diluirsi negli stessi set ripresi da lavori come The Iran Jobâ di Till Shauder (il primo dei tre anni della mancata promessa Nba Kevin Sheppard nel campionato di basket iraniano) o nell’intenso Forbidden Voices di Barbara Miller (la rivolta digitale è donna in Iran, a Cuba e in Cina) che stranamente si ingolfano nelle tante immagini del Vajont e complice il cinquantesimo della tragica ricorrenza la direzione affida tutta se stessa all’inseguimento di una verità che non si darà mai. C’è da dire che qui i gioielli di Luigi Di Gianni brillano negandogli ancora una volta la maggior importanza che avrebbero nella sua filmografia le purtroppo misconosciute escursioni nel mondo kafkiano; e quanti tipi dello scrittore praghese si ritrovano moltiplicati nell’ immobiliarista di Venice syndrome di Pichler come negli anfratti burocratici de I promessi sposi o ancora nell’eponimo Il castello di D’Anolfi-Parenti.

Ed invece la partita definitiva si gioca su un altro campo, sull’attualità, sullo spostamento geografico dei media del mondo sul pianeta sconosciuto della Corea del Nord e ai tanti interrogativi che le posizioni estreme del suo giovane e dinastico dittatore suscitano nei potenti della terra. La suggestione è tale che si palesa con l’anteprima nazionale del film di produzione tedesco-coreana Camp 14. Total Control Zone di Marc Wiese: film meticcio, espanso all’animazione (la descrizione del campo è disegnata sui ricordi) e al pedinamento del protagonista, quando non è sottoposto all’interrogatorio del regista (nuova e sottile tortura per sapere la verità dell’indicibile) e che consente di allargare tutta una ridda di ipotesi. Mentre, la tesi la dà lo stesso Shin Dong-Huyk, giovane nato in cattività in uno dei tanti campi di prigionia della Corea del Nord in cui si può essere internati per i motivi più spiccioli ed insignificanti. Da questi luoghi vivi non si torna. Ma, lui è riuscito a fuggire e in una Corea del Sud, altamente competitiva, a stupire è la sua consistenza intellettuale che in un mondo dominato dal denaro rivendica la purezza del suo cuore; e nonostante gli abbiano schiacciato brutalmente l’esistenza si volta alla ricerca del paese giusto non bastandogli la libertà giusto di un paese.